“La pseudo riforma fiscale varata dal governo con la legge Di Bilancio è clamorosamente sbugiardata dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio che conferma l’analisi della Uil sulla iniquità ed inefficacia dell’intervento: l’85% dei lavoratori e dei pensionati, infatti, riceve solo qualche briciola“. Il segretario confederale Uil, Domenico Proietti, ha commentato così le simulazioni dell’Upb – di cui Ilfattoquotidiano.it aveva già dato conto la settimana scorsa – che confermano come i vantaggi del taglio Irpef e delle nuove detrazioni vadano soprattutto ai redditi medio alti. Cosa che ha convinto Cgil e Uil a proclamare per lo scorso 16 dicembre lo sciopero generale. In conferenza stampa il 22 dicembre il premier Mario Draghi ha detto che “in termini percentuali, i maggiori benefici si concentrano sui lavoratori con 15mila euro di reddito“, ma l’affermazione regge solo sommando ai risparmi Irpef quelli legati alla decontribuzione una tantum e confonde le acque perché non guarda ai valori assoluti, che sono ciò che conta per il lavoratore. Per dare un’idea, l’organismo indipendente italiano che vigila sui conti pubblici calcola che con la riforma i dirigenti avranno una riduzione media di imposta di circa 368 euro, oltre il doppio rispetto a quella prevista per gli operai che si ferma a 162 euro.
Che i risparmi in valore assoluto raggiungano il livello massimo in corrispondenza dei 40mila euro di imponibile è del resto evidente dalle stesse tabelle del Tesoro, mai presentate ufficialmente, che sono state “passate” ad alcuni quotidiani a metà dicembre e che Draghi aveva sotto gli occhi durante l’incontro con i giornalisti. È evidente che guadagnare 40mila euro di reddito non significa essere ricchi, ma per valutare l’equità dell’intervento occorre tener conto del fatto che il 68% dei contribuenti non supera i 26mila euro, l’85% non arriva a 35mila euro e l’imponibile Irpef del lavoratore dipendente medio si ferma a poco più di 21mila euro. La tabella sotto, preparata dal ministero dell’Economia, mostra che a quel livello di introiti la busta paga, per effetto della riforma inserita in manovra, si appesantirà a regime di meno di 200 euro complessivi (300 solo nel 2022, quando il lavoratore avrà diritto anche a uno sgravio contributivo transitorio). Al contrario, a 40mila euro di stipendio lordo annuo ai fini Irpef il guadagno sarà di 945 euro, 78 al mese, pari al 2,4% del reddito. Ma cosa succede – sempre in base ai calcoli del Mef – a chi guadagna solo 15mila euro l’anno, l’esempio scelto dal premier? In tasca si ritroverà d’ora in poi 336 euro in più all’anno, 28 al mese. La cifra salirà a 423 euro, pari al 2,8% del reddito familiare, unicamente nel 2022 per effetto della riduzione una tantum dei contributi: l’anno prossimo dunque, pur godendo di un risparmio molto inferiore, potrà consolarsi perché l’incidenza del beneficio è effettivamente più alta rispetto a quella riservata a chi porta a casa 25mila euro in più all’anno. Ma già dal 2023 l’illusione ottica scomparirà e l’incidenza percentuale (336 euro su 15mila) scenderà al 2,2%.
Tornando alle simulazioni dell’Upb, che mostrano i risparmi per i lavoratori con diverse qualifiche, un grafico inserito nel rapporto pubblicato il 20 dicembre (vedi sotto) mostra chiaramente come gli effetti distributivi vadano a vantaggio dei “dirigenti”, seguiti a notevole distanza dagli “impiegati”. In ultima posizione gli “operai”. Interessante il fatto che per operai e dirigenti “si rileva la medesima incidenza della riduzione di imposta rispetto al reddito, pari a circa l’1 per cento“. Addio alla narrazione dell'”incidenza percentuale” maggiore per chi guadagna meno. In generale, rileva l’Upb, la riforma dell’Irpef prevista dalla manovra “comporta a regime una riduzione del prelievo di circa 264 euro medi pro capite (circa l’uno per cento del reddito disponibile) per 27,8 milioni di contribuenti, pari a circa due terzi del totale”. A fronte della riduzione media stimata, per circa la metà dei beneficiari l’importo effettivo sarà di 185 euro, mentre un contribuente su 8 (il 12,5%) beneficia per più di 500 euro.
Nel capitolo ‘valutazione dell’impatto’ si spiega che l’onere complessivo a regime è stimato in 7,3 miliardi e, quindi, “non si discosta in modo significativo rispetto alle valutazioni riportate nella relazione tecnica (circa 7 miliardi). La simulazione, condotta “su una platea rappresentativa di contribuenti eterogenei”, mostra infine che 370mila individui avranno addirittura un incremento di imposta, “in media pari a 188 euro pro capite, per un totale di 70 milioni complessivi”. Questo fenomeno si verifica, spiega l’Upb, “per effetto del disallineamento tra reddito imponibile (su cui si determina l’imposta) e il reddito complessivo (su cui si calcolano le detrazioni): per esempio il secondo, ma non il primo include le locazioni sottoposte a cedolare secca”.
Il documento dell’Upb si conclude sottolineando che “di fatto, il 20 per cento delle famiglie in condizione economica meno favorevole, che sono già sostanzialmente escluse dall’ambito di applicazione dell’Irpef a causa dell’elevato livello dei redditi minimi imponibili, non sono coinvolte dalla revisione dell’Irpef”. Il fatto stesso di aver deciso di agire sulle aliquote, invece che concentrarsi sul taglio del cuneo fiscale a carico dei lavoratori, porta del resto automaticamente a questo risultato. Che finisce per avvantaggiare maggiormente una piccola quota di contribuenti con redditi che sulla carta sono “medi”, ma risultano alti se si tiene conto che l’imponibile Irpef del lavoratore dipendente medio stando alle ultime dichiarazioni dei redditi si ferma a poco più di 21mila euro.