Erano 12 anni che la 43enne, inserita dalla Bbc tra le 100 donne più influenti del mondo, gestiva Mother Camp, unico centro per dipendenti dalla droga di Kabul. Col ritorno al potere degli Studenti Coranici, però, il suo sogno è svanito in poche ore: "I pazienti del campo che erano in cura sono fuggiti perché diversi uomini armati sono entrati nel centro e hanno chiuso tutti i cancelli. È successo tutto in una notte"
“Quando i Talebani sono tornati, hanno chiuso il mio centro. I ragazzi ricoverati, che lavoravano anche nel mio ristorante, sono scappati per paura di essere puniti per aver collaborato con me. Io mi sono nascosta. La situazione è tragica.” Laila Haidari ha 43 anni e da 12 è a capo di Mother Camp, l’unico centro privato di riabilitazione per tossicodipendenti di Kabul. Dopo lo scorso 15 agosto che ha segnato il ritorno al potere dei Talebani, Laila ha dovuto abbandonare la sua attività. “Quel posto era la mia vita, ho fatto mille sacrifici per metterlo in piedi e in un attimo tutto è andato perduto”.
Mother Camp ospitava centinaia di tossicodipendenti provenienti da ogni parte dell’Afghanistan. Lì, le persone venivano lavate, sfamate e messe a lavorare. Un modo per tenerle lontane dalla droga. “L’obiettivo non era solo aiutare la singola persona che soffriva di dipendenza dalla droga, ma anche la sua famiglia, sia economicamente che psicologicamente. So cosa vuole dire avere un tossicodipendente in famiglia, non è facile”.
Il fratello di Laila, Hakim, iniziò a fare uso di sostanze stupefacenti. “È una brava persona – racconta Laila a Ilfattoquotidiano.it -, non meritava di fare questa fine”. Tutta la vita di questa donna è stata scandita dalle difficoltà. Nata in Pakistan e cresciuta in Iran, Laila Haidari è stata una sposa bambina. All’età di 13 anni è stata data in moglie ad un mullah 30enne dal quale ha divorziato dopo qualche anno dopo aver avuto tre figli che, come impone la legge islamica, sono rimasti con il padre. “Purtroppo di quel periodo ricordo tutto nitidamente. Ero una bambina nelle mani di un uomo, messa a fare la moglie e la madre non sapendo nulla del mondo”.
Arrivata in Afghanistan nel 2009, Laila ha cominciato a seguire un corso di cinematografia. Il suo sogno era diventare regista. Lì, però, la terribile scoperta: Hakim, suo fratello, era diventato un tossicodipendente in un Paese che è il primo produttore al mondo di oppio ed in cui almeno 1 milione di afghani tra i 15 e i 64 anni, secondo l’Unodc, l’Agenzia dell’Onu per la lotta alla droga, sono tossicodipendenti. L’ha ritrovato sotto il ponte Pul-e-Sukhta, nella parte occidentale di Kabul, considerato il ritrovo degli eroinomani della città. “Quando l’ho visto nel degrado più assoluto ho avuto una fitta al cuore e ho deciso che dovevo fare qualcosa per aiutare lui e la nostra famiglia”. Così è iniziata l’avventura di Mother Camp. “Era il 2010, io volevo fare qualcosa non solo per aiutare mio fratello, ma tutti i tossicodipendenti del Paese – dice Laila – Quello della droga è uno dei principali problemi dell’Afghanistan e fino ad ora si è fatto poco o nulla per risolverlo”. Il lavoro della “mother”, come veniva chiamata Laila dagli ospiti della struttura, era fondamentale e il centro piano piano è diventato un punto di riferimento per la società. Dal 2010 ad oggi Mother Camp ha accolto circa 6.400 tossicodipendenti afghani.
Ad aiutare Leila Haidari sono stati tanti amici e nessuna istituzione. “Nessuno del precedente governo ci ha mai aiutato – spiega – Mi piacerebbe capire come e perché altre iniziative siano state finanziate, mentre la mia no”. Gli ostacoli che ha dovuto affrontare per mettere in piedi una realtà come quella di Mother Camp, però, non sono stati solo di carattere finanziario. “Molte delle persone che inizialmente mi hanno sostenuto, piano piano si sono tirate indietro. A quel punto, mi sono rimboccata le maniche e ho aperto un ristorante a Kabul, il Taj Begum, dove i pazienti di Mother Camp potessero lavorare e che mi permettesse di portare avanti il centro”. Non è stato facile per Haidari: una donna sola a capo di un centro di riabilitazione per tossicodipendenti e di un ristorante, in un Afghanistan ancora legato a forti pregiudizi religiosi e sociali. “Mi hanno accusata di gestire un bordello, solo perché mi occupavo da sola di un ristorante dove donne e uomini non venivano separati, potevano incontrarsi e condividere il pranzo o la cena insieme, non ci vedevo nulla di male”, continua.
Dopo il ritorno dei Talebani al potere, Mother Camp è stato chiuso. “È successo tutto in una notte. I pazienti del campo che erano in cura sono fuggiti perché diversi uomini armati sono entrati nel centro e hanno chiuso tutti i cancelli. In un istante ho perso tutto ciò per cui avevo combattuto 12 anni”. Da quando i Taliban sono tornati al potere, hanno promesso di affrontare il problema della tossicodipendenza e di fermare la produzione di droghe, nonostante questa sia da sempre una delle loro principali fonti di sostentamento. Uno dei primi provvedimenti che gli Studenti Coranici hanno preso appena tornati al potere è stato quello di rastrellare la zona del ponte Pul-e-Sukhta. Operazioni, queste, che oggi sono sempre più frequenti. “Li hanno presi con la forza e trasportati in diversi ospedali della città, dove i pazienti vengono trattati con metodi brutali”, spiega Laila. Il metodo dei Talebani per trattare la tossicodipendenza è semplice: 45 giorni di totale astinenza da droghe e nessun trattamento per alleviare il dolore che ne consegue. “In questi mesi i Talebani hanno cercato di risolvere il problema della tossicodipendenza usando metodi forti e barbari, ma questa non è la maniera migliore per curare questo tipo di malattia”.
Nonostante sia nel mirino dei miliziani al potere, Laila non si arrende e ha deciso di continuare la sua attività umanitaria rimanendo lì, a Kabul. “So che mi stanno cercando perché conduco uno stile di vita che loro non accettano, ma non mi fermo. Molte persone mi chiamano chiedendomi aiuto anche solo per trovare cibo. La situazione è grave in Afghanistan, soprattutto per le donne. Hanno perso mariti, figli e fratelli, hanno subito violenze e sono morte di fame. La miseria di questa guerra degli uomini è stata pagata dalle donne”.
La condizione femminile in Afghanistan sta peggiorando di giorno in giorno. Per i nuovi governanti, ogni donna deve indossare il burqa e non può neanche viaggiare se non accompagnata da un parente maschio. “Per questo abbiamo formato un gruppo di donne sarte professioniste e abbiamo creato una piccola marca di abbigliamento, Tipchi – conclude – Ci piacerebbe entrare in contatto con le grandi e piccole realtà della moda italiana, abbiamo bisogno di supporto per dare un futuro alle donne afghane.” Laila Haidari non intende lasciare l’Afghanistan. “Ricevo ogni giorno richieste di aiuto, come posso abbandonare questo popolo?”. Nel frattempo, il suo coraggio non è passato inosservato. Lo scorso 7 dicembre, la Bbc l’ha inserita tra le 100 donne più influenti del mondo.