Non deve sorprendere la malcelata sfiducia di alcuni personaggi nei riguardi del Mezzogiorno. Ciò si deve non solo alle prove non esaltanti che spesso le leve politiche del Sud hanno offerto nel corso della storia più o meno recente, ma anche alla concrezione dei pregiudizi che si sono diffusi e rafforzati nei riguardi della gente del Sud Italia. Qual è la causa di questa tara di sguardi, che si manifesta quando i media, gli italiani (sempre più spesso gli stessi meridionali), gli stranieri guardano e commentano notizie sul Mezzogiorno?

Ne parla l’antropologo Vito Teti, in Maledetto Sud (Einaudi), in un libro più che mai attuale. Un breve saggio in cui diversi luoghi comuni vengono smontati con pazienza, rigore e pacatezza. Ad esempio, erano oziosi e lenti, i meridionali? Erano sudici, maledetti, briganti e mafiosi? Teti scrive con l’orizzonte di chi ancora ambisce a un progetto di compiuta unificazione, giusta e uguale, come ancora auspichiamo che debba essere. Con lo sguardo alla scala globale, che rende ristrette molte prospettive (l’avidità di alcuni territori come i rivendicazionismi scomposti di altri) e impone di confrontarsi con dinamiche sovranazionali complesse. Le complessità del mondo non vietano (tutt’altro) di capire cosa ci sia di vero, oltre la cortina di luoghi comuni che distorce la percezione degli eventi.

Erano forse oziosi i contadini, già al momento dell’Unità? Certamente no, come non lo erano quelli di cui narra Levi nel suo Cristo si è fermato a Eboli (ambientato negli anni ’30), che lavoravano “da scuro a scuro”, dall’alba al tramonto, una terra non certo prodiga. I contadini a cui parlava il sindaco socialista Scotellaro nella sua Tricarico, prima di essere politicamente annientato con manovre di polizia e carte bollate, poi scioltesi come neve. Non erano certo oziosi quelli per cui l’emigrazione era sola speranza, come ancora oggi avviene, soprattutto al Sud. Un territorio in cui i politici dipingono entusiastici autoritratti, auspice uno stuolo di cortigiani, mentre i giovani fuggono a milioni (dati Istat).

Al contrario, uno stigma sociale colpiva gli oziosi, al Sud come al Nord del Paese. Le cronache dei secoli precedenti l’unificazione raccontano, piuttosto, come la pigrizia dei nobili fosse il vero ostacolo alle riforme invocate dagli intellettuali meridionali. E allora, perché erano e sono del Sud, gli oziosi, secondo la vulgata? Perché sin dal Rinascimento e dai tempi dei “grand tour”, riferisce Teti, erano pigri gli italiani tutti, soprattutto presso gli europei delle nazioni protestanti. Dopo il 1861, il ceto imprenditoriale centro-settentrionale, vittima per primo dei pregiudizi stranieri, decise di riversare sul Sud gli stereotipi di cui era stato vittima esso stesso. “Un processo di costruzione dell’alterità”, attuato internamente, che continua a far danni ancora oggi. L’ozio italiano diventò così un tratto caratteriale del solo meridionale. A ben pensarci, negato perfino dal brigantaggio, che costò la vita a quanti scelsero di stare dalla parte avversa, inclusi i contadini e le contadine, comunque la si pensi sul fenomeno.

Teti parla di una etnicizzazione dell’ozio che “diventa il segno di un’alterità interna all’Italia e fornisce alibi per scelte di colonialismo interno”. L’ozio non è causa ma conseguenza – semmai – di arretratezza e miseria, di smantellamento del tessuto economico e disorientamento dei ceti meno agiati. Persino la celebre “triade mediterranea” costituita da grano, olio e vino costituisce una sorta di leggenda recente, visto che i ceti popolari, fino agli anni Cinquanta, consumavano pane nero, condito con grasso di maiale, quando possibile. Non c’è mai stato un paradiso popolato da diavoli; c’era – e c’è, semmai – un paradiso per pochi privilegiati, e quello delle fantasie di alcuni scrittori.

C’è stato invece tanto sforzo, nelle braccia: Teti parla delle case degli “americani”, gli emigranti ritornati, tra le prime con servizi igienici; degli interventi fondamentali della Cassa del Mezzogiorno, che fecero “arrivare l’acqua nei paesi e nelle case”, ponendo fine alle interminabili code davanti alle fontane pubbliche. In anni recenti, la vicenda dei rifiuti a Napoli ha rafforzato lo stereotipo della “razza maledetta”, dei “sudici”, complice la propaganda di certe parti politiche che lucravano su un disastro amministrativo che si è verificato anche altrove, più di recente, senza sollevare lo stesso clamore, mancando la relativa etnicizzazione della sporcizia.

“La maledizione dei razzisti assumeva forza e concretezza”, basandosi su presupporti antropologici di origine positivista, che produce una pericolosa distorsione anche nell’auto-percezione degli stessi meridionali. Andati e rimasti. Teti spiega come l’ombra sinistra lanciata da certi ambienti politici sul Sud ha finito per attrarre al Nord proprio le peggiori ombre del Sud che hanno intercettato le omologhe figure locali, politici, industriali, funzionari e professionisti senza scrupoli che “sventolando una propria presunta diversità e superiorità, erano corrotti, evadevano, non pagavano le tasse, utilizzavano con imbrogli i fondi europei, operavano sempre con tangenti e mazzette, erano disponibili pur di fare affari ad avvelenare con scorie, detriti, rifiuti prodotti dalle loro fabbriche […] esattamente come era accaduto al Sud”.

L’Italia si è ritrovata unita nel negativo, di cui porta tutta intera la responsabilità. Mentre le distanze tra le sue parti si sono allungate. E alla retorica su identità e tradizioni del Sud fa troppo spesso da riscontro il disordinato e spaesante proliferare di “non luoghi” e cemento, in cui non c’è centro e non c’è periferia, con capannoni abbandonati e risorse violate e avvelenate. Teti illustra la catena di fenomeni che ha fatto del Sud l’humus ideale per far fiorire le grandi holding come la ‘ndrangheta; il prosperare del terziario e dei consumi di merci prodotte altrove ha favorito la scomparsa dei contadini in favore di una proliferazione di mediatori, faccendieri, opportunisti che hanno sperperato e corrotto, al Sud come al Nord.

La riflessione sulle nuove retoriche che accompagnano la violenza sui luoghi, lo spopolamento, la celebrazione melliflua di bellezze goffamente imbalsamate, l’asservimento del paesaggio al profitto nelle sue varie forme ci insegna molto su quello che non dobbiamo essere, su quello che non dobbiamo continuare a diventare. C’è un Sud delle diversità, eterogeneo, con linee di sviluppo molteplici e divergenti. Teti lo chiama “Sud luogo ossimoro”, dove si resta e al contempo si fugge. È una “questione” nuova, molto diversa e più complessa del passato, da guardare con un approccio nuovo, della “nostalgia riflessiva”, non patetica, bensì sovversiva.

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