di Giuseppe Sciarra
Il bullismo continua a essere una piaga sottovalutata dai nostri politici e dall’opinione pubblica. Si parla di questo tema nei media solo quando degli adolescenti vengono aggrediti (quasi sempre da un branco) o peggio ancora se si uccidono. Per qualche tempo l’esperto di turno esprime un suo parere sulla questione cercando le responsabilità di scuola e famiglia, un’indignazione generale si propaga da una trasmissione televisiva all’altra, si fanno delle analisi sulle ragioni per cui dei ragazzi commettano violenze ai danni di un loro coetaneo e ci si chiede in altri casi se queste violenze siano state effettivamente commesse (quelle psicologiche sono più ardue da dimostrare). Alla fine si arriva in molti casi alla conclusione che il ragazzo si sia tolto la vita solo per problemi di depressione personale di cui i bulli ovviamente hanno una responsabilità marginale e il caso viene archiviato e dall’opinione pubblica ridimensionato.
La sensazione che si ha spesso è che non si voglia andare oltre. Non c’è una giustizia vera per chi è vittima di bullismo. Ne parlo da ex bullizzato – sottolineo ex, ed è mia intenzione scrivere e parlare per quanto mi sarà possibile di un crimine: perché di questo trattasi – senza vittimizzarmi. Conosco bene i bulli e l’ambiente che li protegge. Iniziai a essere preso in giro dai miei coetanei dall’età di otto anni. L’ho raccontato in un breve documentario che ho diretto da regista, Ikos, con la collaborazione dell’attore Edoardo Purgatori.
Negli anni Novanta vivevo in un piccolo paese del sud in provincia di Foggia e, fino al momento in cui i bulli non avevano iniziato a prendermi di mira, ero felice. La mia famiglia mi amava: essendo il piccolo di casa – ultimo di quattro figli – ero quello più coccolato da tutti i miei affetti. L’impatto con le scuole e con la realtà mi introdussero in un mondo diverso da quello rassicurante della famiglia. Venni additato immediatamente come gay dai miei compagni di scuola perché non facevo a botte, non ero abbastanza mascolino e non rientravo nei parametri machisti della realtà in cui vivevo, parametri assai discutibili, in cui la prevaricazione sull’altro e la violenza venivano spacciati come virilità.
Il bullismo di cui fui vittima si manifestò in vari modi. Minacce, umiliazioni, calunnie, violenze fisiche e psicologiche inizialmente da una parte ristretta di coetanei, successivamente da un numero imprecisato di ragazzini e da qualche persona adulta, gente che in molti casi nemmeno conoscevo. Quando uscivo di casa era diventata consuetudine ricevere sputi in faccia, essere preso a calci, schiaffeggiato, palpato, denigrato e addirittura preso a sassate da molti bulli, tra grosse grasse risate e divertimento – c’è chi ha il coraggio di definirli atti di goliardia, io li chiamerei per quello che sono: atti delinquenziali.
Occorre un’attività di prevenzione nelle scuole che venga imposta dal ministro della Pubblica istruzione a tutti gli istituti italiani, con dei formatori che dialoghino con il corpo insegnanti e sensibilizzino sulla questione bullismo. Occorre una legge che punisca i bulli in base a ciò che commettono e alla fascia di età a cui appartengono, prendendo provvedimenti anche sulle loro famiglie e sulla scuola perché la società, per quanto se ne dica, è ancora dalla parte dei bulli.
Fin quando il bullismo verrà visto come una bravata e non come reato a ben poco basteranno le buone intenzioni. Con buona pace di tutti quei ragazzi spinti al suicidio, di chi è sopravvissuto con le sue cicatrici e della menzogna che racconta “è stato vittima di un rito di passaggio”, che gli ha rubato però la vita.