Si fa presto a dire “redditi medi”. Il dibattito degli ultimi giorni su quali fasce siano più avvantaggiate dalla riforma Irpef del governo Draghi (quelle medio alte) sconta un malinteso. O per meglio dire la mancata consapevolezza di quali siano oggi in Italia le retribuzioni dei lavoratori dipendenti, circa 18 milioni di persone su un totale di 23 milioni di occupati, che insieme ai pensionati dichiarano al fisco più dell’80% del reddito imponibile complessivo. Se il dipartimento delle Finanze fornisce solo un valore medio, 21mila euro, l’ultimo Osservatorio Inps sul 2020 e gli open data messi a disposizione dall’istituto previdenziale ed elaborati da ilfattoquotidiano.it offrono un quadro molto dettagliato. Da cui emergono sia l’impatto della pandemia sia pesantissimi divari generazionali e di genere che l’emergenza sanitaria in alcuni casi ha acuito. Basti dire che un lavoratore dipendente tra i 25 e i 29 anni nel 2020 ha guadagnato in media 14.400 euro lordi e un ventenne 9.300, contro i 27.900 del 55enne tipo. E gli uomini portano a casa mediamente 7mila euro l’anno in più rispetto alle donne, molto più soggette al part time involontario. Sono queste le premesse su cui si è innestata la ripresa “avara” del 2021, che lascia in eredità un mercato del lavoro più povero e precario.
Il rapporto Inps aggiornato a dicembre 2021 prende in considerazione anche gli autonomi e professionisti iscritti alla gestione separata, gli artigiani, i commercianti, i lavoratori domestici e gli operai agricoli, arrivando a coprire il 95% degli occupati regolari in Italia. Nel complesso il numero di lavoratori non è diminuito, perché sono cresciuti gli statali, i lavoratori domestici e – per effetto del bonus baby-sitting – il lavoro occasionale e con voucher. Ma le settimane lavorate sono scese in media da 42,9 a 40,2 per persona con conseguente diminuzione del reddito medio annuo da 23.114 a 21.72o euro (da notare che si tratta di imponibili previdenziali, cioè redditi al lordo delle tasse e dei contributi). Se per i dipendenti pubblici il calo è stato lievissimo, da 33.660 a 33.173 euro, e gli amministratori di società guidano la classifica restando abbondantemente sopra i 48mila euro, i dipendenti privati nell’anno della pandemia hanno visto i loro introiti scendere da 22.790 euro a 21.500. La cassa integrazione, va ricordato, copre non oltre l’80% della retribuzione.
Lo svantaggio dei ventenni: perché prendono meno – La media, “specchio” di un mercato del lavoro in cui stipendi vicini alla soglia di povertà sono la norma, maschera però una struttura salariale in cui gli over 50 possono contare su retribuzioni molto più alte rispetto ai giovani. Non perché esista qualcosa di simile a “gabbie” per età. Il punto è che gli under 40 lavorano meno ore perché sono più spesso precari con contratti brevi e discontinui, quando non anche a tempo parziale. Il fenomeno emerge dal numero di settimane lavorate (vedi tabella): nell’anno del lockdown sono state solo 30 su 52, in media, per chi ha tra i 20 i 30 anni, contro le 42 dei 50enni.
In parallelo, i giovani sono stati anche i più penalizzati dal calo dell’occupazione legato alle restrizioni anti contagio: tra i dipendenti under 19, che in numeri assoluti stando ai dati Inps erano nel 2019 poco più di 260mila, il crollo è stato addirittura del 27%. Mentre nella fascia 40-44 anni la diminuzione è stata 5,6% e tra i 50-54 anni solo dello 0,3%. Gli over 65 assicurati Inps al contrario sono addirittura aumentati, come conseguenza della “mobilitazione” dei nonni con il bonus baby sitter.
Per chi ha 25 anni 14.400 euro di media, ai 55enni 28mila – Tornando ai redditi, e considerando anche in questo caso i soli lavoratori dipendenti privati, nella classe di età dai 25 ai 29 anni la media nel 2020 è scesa dai 15.600 euro del 2019 a 14.400 euro: 1.200 lordi al mese. La curva dei redditi sale poi progressivamente: poco più di 17.900 euro (dai 19.300 del 2019) per i dipendenti tra i 30 e i 34 anni, 20.600 tra i 35 e i 39 (che l’anno prima ne guadagnavano in media 22.200), 23mila tra i 40 e i 44. Il picco, anche se definirlo tale fa sorridere, arriva passati i 50 anni, con 26.800 euro medi annui per i 50-54enni – fascia in rapido allargamento per effetto della demografia – e quasi 28mila euro medi l’anno per i 55-59enni: il 135% in più rispetto a chi ha tra 20 e 30 anni. I maschi nella fascia di età 55-59 nel 2020 hanno a dire il vero superato i 32mila euro di reddito medio (-6% sull’anno prima), il valore più alto nella categoria dei dipendenti, ma le donne loro coetanee si sono fermate a poco più di 21mila.
Il gap tra uomini e donne arriva a 11mila euro annui – Quello tra i redditi di uomini e donne è l’altro gap persistente e di proporzioni macroscopiche. Più presenti nei comparti maggiormente colpiti dalla pandemia, con il lockdown le lavoratrici le prime a perdere il posto di lavoro ma poi hanno recuperato. Rimanendo però, sul fronte dei redditi, molto indietro rispetto ai lavoratori maschi. Si parla di circa 4mila euro di differenza per le 25enni e 5.700 euro per le trentenni. Ma il divario si allarga all’aumentare dell’età arrivando a 9mila euro in meno rispetto ai coetanei per le 45-49enni, addirittura a 10mila euro in meno per le 50-54enni e 11mila euro nella fascia 60-64 anni. Qui, va chiarito, gli stipendi pagati dalle aziende contano solo fino a un certo punto. Il problema è che le donne sono le più soggette al part time involontario, che significa meno ore lavorate e meno soldi. Quando il contratto è full time, poi, se hanno famiglia per loro è più difficile accettare straordinari. La situazione è peggiorata con l’emergenza: chi ha preso un congedo parentale Covid ha ricevuto, per quei mesi, un’indennità pari al 50% dello stipendio. E in gran parte si è trattato di donne.
Per loro, come per i giovani, anche se l’Italia adottasse finalmente un salario minimo orario non cambierebbe molto. Quello che serve, oltre a un intervento robusto contro i contratti pirata che non sembra all’ordine del giorno, sono da un lato più servizi per l’infanzia e la non autosufficienza, dall’altro un sistema di welfare per i lavoratori poveri che non si limiti al reddito di cittadinanza. Come riportato da La Stampa, la commissione sul lavoro povero nominata dal ministro Andrea Orlando e guidata dall’economista Andrea Garnero auspica nella sua relazione che anche in Italia sia introdotto uno strumento ad hoc di integrazione al reddito per chi lavora e non arriva a fine mese. Si vedrà se il governo in questo caso seguirà le indicazioni degli esperti. I consigli della commissione Saraceno sul rdc sono stati del tutto ignorati.