L'indagine dell'Istituto nazionale per l'analisi delle politiche attive: per l'80% degli interessati il reddito ottenuto con il lavoro tramite piattaforma è fondamentale per arrivare a fine mese. Oltre il 31% delle persone coinvolte non ha un contratto scritto e solo l'11% ha un contratto da dipendente. "Si configura come una forma di lavoro fortemente controllata, svolta nei tempi e nei modi stabiliti dalla piattaforma, per molti unica scelta in assenza di alternative occupazionali"
Sono oltre 570mila le persone in Italia che lavorano su una piattaforma digitale. Il dato emerge dall’indagine dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp) “Lavoro virtuale nel mondo reale”. I rider che consegnano i pasti sono poco più di un terzo del totale (il 36,2%) e i fattorini che consegnano i pacchi il 14%. Il resto svolge vari lavori on line che vanno dalle traduzioni alla programmazione. Per quasi la metà dei lavoratori su piattaforma (circa il 48%, ovvero 274mila persone) questo lavoro costituisce la propria attività principale e per l’80,3% degli intervistati si tratta di una fonte di sostegno importante o addirittura essenziale. I ricercatori dell’istituto spiegano che alla prova dei fatti quello su piattaforma “si configura come una forma di lavoro fortemente controllata, svolta nei tempi e nei modi stabiliti dalla piattaforma, per molti unica scelta in assenza di alternative occupazionali, pagata spesso a cottimo e il cui guadagno risulta importante per chi lo esercita. Un lavoro povero, quindi, paradigmatico della sempre più ampia diffusione anche in Italia del fenomeno della gig economy”.
Lo studio, che arriva a pochi giorni dalla presentazione della proposta di direttiva della Commissione europea per il miglioramento delle condizioni di lavoro nelle piattaforme, secondo l’Inapp “sfata i miti della sharing economy“. Infatti ne emerge che le piattaforme digitali “richiamano sempre più forme di lavoro rigidamente controllate (nei tempi e nei modi), pagate spesso a cottimo (50,4% dei casi) e il cui guadagno risulta fondamentale per chi lo esercita”. Oltre il 31% delle persone coinvolte non ha un contratto scritto e solo l’11% ha un contratto di lavoro dipendente. “L’adozione della direttiva può rappresentare un importante punto di riferimento sovranazionale per regolamentare e tutelare il lavoro”, afferma Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp, garantendo alcuni diritti fondamentali “finora negati” tra cui salario minimo, orario di lavoro, sicurezza e salute sul lavoro, forme di assicurazione e protezione sociale.
Questi lavoratori sono per tre quarti uomini. Sette su dieci hanno un’età compresa tra 30 e 49 anni, con i giovani tra 18 e 29 anni concentrati soprattutto nella categoria dei lavoratori occasionali.Per il 48,1% dei lavoratori su piattaforma (274mila persone) questo lavoro costituisce la propria attività principale mentre per il 24,4% (139mila soggetti) è l’attività secondaria e per il 27,5% (157mila persone) solo un lavoro occasionale. Chi lavora tramite piattaforme come attività principale presenta livelli di istruzione più elevati (dal diploma in su), mentre chi lo fa occasionalmente presenta titoli di studio più bassi. Il 45,1% dei lavoratori delle piattaforme appartiene alla tipologia “coppia con figli” e la quota sale al 59,1% nel caso di occupati che considerano quella delle piattaforme un’attività secondaria. Al contrario, le persone che occasionalmente collaborano con una piattaforma sono più frequentemente single (37,9%).
Se ai platform worker aggiungiamo coloro che vendono prodotti (piattaforme pubblicitarie) o affittano beni di proprietà (piattaforme di prodotto) si arriva a un totale di 2.228.427 di individui che dichiarano di aver ricavato un reddito attraverso le piattaforme digitali tra il 2020 e il 2021.