“Sono una morta che cammina, questa volta non ce la farò”. Così scriveva la ginecologa Sara Pedri, medico dell’ospedale Santa Chiara di Trento, poco prima di scomparire, quasi un anno fa. Sono parole premonitrici. Il medico stava attraversando una profonda crisi professionale e personale per il trattamento che stava subendo nella struttura sanitaria. In quelle ore stava probabilmente meditando il suicidio: uno degli accessi in rete ha riguardato il Ponte di Santa Giustina, dove la sua auto è stata trovata con il cellulare all’interno.
Quella frase è confluita nella corposa perizia psichiatrica che è stata redatta sulla base dell’analisi degli scritti, tra cui anche l’ultimo messaggio al padre: “Vi chiedo scusa per la delusione che vi ho procurato”. La perizia, che è composta di 119 pagine, è stata depositata in Tribunale a Trento dall’avvocato Nicodemo Gentile, che assiste la famiglia Pedri intenzionata ad ottenere giustizia, visto che attribuisce la scomparsa di Sara alla situazione di pesante mobbing che doveva subire. Sara sarebbe stata “vittima di vessazioni così frequenti e costanti da generare nella giovane donna un vero e proprio disturbo post traumatico da stress, un dolore estremo e intollerabile tale da far apparire la morte come un sollievo”.
Secondo la consulente dalla psicologa Gabriella Marano, Sara “si è ritrovata come un agnello in mezzo ai lupi, ed ha finito per essere sbranata dalla violenza di chi si è avventato contro di lei. È stata vittima infatti di Mobbing, nella sua variante del Quick Mobbing, ovvero di comportamenti vessatori frequenti e costanti, posti in essere con lo scopo (quand’anche inconsapevole) e l’effetto di violare la sua dignità di donna e lavoratrice, e di creare, intorno a lei, un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo, che ha minato, data l’eccezionalità e la violenza della portata, il suo equilibrio in poco più di 3 mesi, generando in lei un vero e proprio disturbo: disturbo post traumatico da stress, con sintomi ricorrenti riconducibili anche al criterio della Depersonalizzazione. Un dolore estremo e intollerabile tale da far apparire la morte come un sollievo”.
Insomma, si sarebbe suicidata. Sono queste le conclusioni riferite dal quotidiano L’Adige. La perizia entrerà nell’inchiesta che ha come indagati il primario Saverio Tateo (che è stato licenziato) e Liliana Mereu (trasferita ad altro incarico) e che prevede il 7 febbraio un’udienza con incidente probatorio e interrogatorio di alcuni testimoni.
Sara Pedri era arriva in Trentino il 15 novembre 2020 dopo aver vinto il concorso per un posto all’ospedale di Cles. Però non ha mai preso servizio in Val di Non. Infatti, il reparto è stato chiuso a causa della pandemia e la dottoressa è stata spostata al Santa Chiara. È lì, nel reparto di ginecologia di Trento, che inizia per lei un periodo drammatico. La sorella Emanuela e i familiari lo hanno descritto come un autentico incubo. “In un mese e mezzo mia sorella si è bruciata letteralmente l’esistenza, non dormiva, non mangiava, era distrutta per il forte disagio ambientale all’interno del reparto dove operava”. Era molto stanca ed è tornata a Forlì dalla famiglia il 19 febbraio dello scorso anno. Un medico le aveva diagnosticato uno stress da lavoro. Poi però era rientrata in Trentino. Dopo una settimana è già nella sua casa di Cles. L’1 marzo il trasferimento nell’ospedale della Val di Non. Il 3 marzo Sara si dimette dall’incarico. Il 4 marzo scompare. La famiglia segnala di aver perso i contatti con lei e così cominciano le ricerche. A Mostizzolo viene trovata la sua auto con all’interno il cellulare.
Passano alcune settimane e il reparto dell’ospedale di Trento finisce al centro delle cronache. Dapprima soltanto locali, poi nazionali. Si diffondono racconti sulle condizioni di lavoro. A giugno il direttore del reparto, Saverio Tateo, viene confermato nell’incarico. Nel frattempo le ricerche di Sara non danno nessun risultato. La Procura apre un’inchiesta ed emergono le prime testimonianze su quanto fosse difficile il clima di lavoro. L’Azienda sanitaria affida a una commissione interna il compito di verificare che cosa accadesse davvero nel reparto, in riferimento ai rapporti tra i vertici, gli altri medici e le ostetriche. Viste le polemiche, il direttore Tateo va in ferie concordate. Eppure l’1 luglio il direttore generale dell’Azienda sanitaria, Pier Paolo Benetollo, conferma Tateo nel suo ruolo con una delibera. È un putiferio. Benetollo si dimette, mentre arrivano a Trento gli ispettori del Ministero della Salute. Il 10 luglio la commissione interna chiude i lavori confermando l’esistenza di una situazione critica all’interno del reparto e chiedendo il trasferimento del direttore Tateo e della sua prima collaboratrice la dottoressa Mereu. Il primo viene trasferito a Pergine, la seconda a Rovereto. Ad agosto emergono le prime indiscrezioni di un’inchiesta dei carabinieri del Nas che conferma l’esistenza di ripetuti maltrattamenti ripetuti e chiede di indagare il primario e la sua vice. Ad ottobre i nomi dei due medici vengono iscritti nel registro degli indagati per maltrattamenti. A novembre il dottor Tateo viene licenziato.