di Franco Failli
Stiamo constatando una cosa che a molti appare strana e incomprensibile: tra la popolazione italiana (e non solo) c’è un certo numero di persone che sono assai restie ad assumere il vaccino anti-Covid, a prescindere da tipi e marche disponibili. Le posizioni sono, come sempre, molto differenziate: c’è chi ha certe patologie che rendono l’assunzione troppo rischiosa, chi non si fida di un farmaco giudicato ancora troppo nuovo, chi pensa che il vaccino sia un modo per iniettare sostanze strane o strumenti di controllo occulto della popolazione, chi ritiene che il Covid non esista e che sia tutta una perversa montatura governativa con dietro Big Pharma. Magari c’è anche chi ha una gran paura degli aghi o di altro, dato che la varietà umana in questo campo non ha limiti; con poi tante combinazioni diverse di tutto ciò.
Ma forse c’è anche altro. Il motivo per cui il Covid ci spaventa più di altre malattie è che con il Covid si muore. Muoiono ovviamente molte persone deboli perché anziane o malate, ma talvolta muoiono anche “giovani”, cioè persone che senza questa pandemia sarebbero vissute parecchi anni in più. Per poi morire comunque, ovviamente.
Siamo sicuri che questa sia una cosa così ovvia per tutti noi? Con la testa lo sappiamo tutti, di dover morire. Ma con il cuore, o con la pancia, come va di moda dire adesso? Siamo sicuri che tutti i morti che ci siamo visti intorno non abbiano rinforzato in alcuni di noi l’intima, e preesistente, convinzione che a morire sono sempre gli altri e che noi invece non moriremo mai? Quanti sono gli amici e parenti, gente normale, non marziani, che da sempre non vanno mai dal medico, non si fanno analisi, snobbano le cure perché “io non mi ammalo”? Figuriamoci poi morire. E allora la spinta, forte, che la società sta esercitando su tutti noi perché ci vacciniamo potrebbe essere sentita come uno sgradito richiamo al concetto che invece tutti abbiamo bisogno di proteggerci, perché siamo tutti vulnerabili, tutti mortali.
Un richiamo del tipo di quello che il seguace di Savonarola lancia al personaggio di Massimo Troisi, affacciato a una finestra in Non ci resta che piangere: “Ricordati che devi morire!”. Ma non tutti hanno l’ironia di rispondere semplicemente: “Sì sì… mo’ me lo segno!”. Qualcuno si offende e aggredisce o minaccia chi indossa il camice bianco che, come una volta il saio dei confratelli di fra’ Girolamo, ricorda l’inevitabile appuntamento.
E allora assumerebbero un senso anche gli scellerati atti di contagio volontario cui talvolta abbiamo assistito. Potrebbero essere il modo di affermare una convinzione di immortalità che, quasi benignamente, si vuole coinvolga anche gli altri: così come io sono immortale, lo sei anche tu! Prendine coscienza, immergendoti in questa acqua, ed esci asciutto, sano, come lo sono io! Sfortunatamente, chi invece con quell’acqua ci si è inzuppato non è più in grado di smentire, e anche le drammatiche testimonianze di chi si è dovuto ricredere in un letto d’ospedale servono a poco. Anche loro, che fino a ieri sfilavano baldi nel gruppo degli invulnerabili, sono andati a far parte degli “altri”. Di quelli che possono morire. Si vede che non erano come me.
Stiamo cioè forse pagando quella cecità culturale rispetto all’idea di morte che così profondamente ha permeato la società occidentale e capitalistica degli ultimi decenni. E’ stato utile a chi doveva vendere e vendere e ancora vendere, che fosse cancellata l’idea della morte, perché chi sa bene di dover morire è meno attratto dal superfluo. Abbiamo perso consapevolezza e serenità, non sentendoci più parte di una comunità, che è stata quasi distrutta. Siamo rimasti da soli, sempre più impauriti da quella presenza spostata nell’ombra, e così ancora più paurosa. E per non vedere che la nostra strada, più avanti, termina, camminiamo col naso per aria, senza guardare dove mettiamo i piedi. E allora non meravigliamoci troppo se ci capita di inciampare in cose strane e incomprensibili.