Il dibattito a tutt’oggi privo di oggetto sul nuovo presidente della Repubblica, che andremo a eleggere nelle prossime settimane, lascia ampio spazio al politicamente corretto dell’opzione di genere. Lo stucchevole femminismo corporativo (alla Lilli Gruber) o burocratico (alla Andrea Orlando, con codazzo di Cinquestelle) per cui la suprema carica andrebbe attribuita sulla base di meri criteri sessuati. La solita gag delle quote rose, massimo oltraggio a un’idea di femminile come specificità intellettuale.
Dunque, un presidente donna in quanto donna. Non in quanto portatrice di felici discontinuità (che ne so: un’incrinatura nella sfera maligna della protervia del potere? Una revisione dei valori dominanti nella politica come carriera? Una declinazione della sorellanza nella riscoperta della solidarietà?). Niente di tutto questo, ma solo la teatralizzazione del pluralismo come cambiamento nella continuità. Pura simulazione, confermata dai nomi che sinora sono saltati fuori: una pletora di “uome”, politicanti di lungo corso ormai irrimediabilmente maschilizzate (se mai tali non lo fossero già agli albori delle loro deambulazioni nei Palazzi del Potere), agenti del patriarcato dominante.
Lo si vede immediatamente scorrendo le liste delle possibili papabili che vengono fatte circolare. Buona ultima quella – scontatissima quanto imbarazzante – stilata dalla cultrice del luogo comune Dacia Maraini e dalle sue amiche salottiere. A parte la simpatica democrista Rosy Bindi, perfetta quale brancardière per pellegrini a Lourdes o da animatrice in una gita a qualche santuario, le top della scrittrice da generone romano procurano l’orticaria: il clone pannelliano Emma Bonino, mimeticamente destrorsa, liberista antisociale e spillatrice di quattrini a Berlusconi dietro la foglia di fico della collaudata provocazione radicale; la piddina in carriera Roberta Pinotti, che ambiva inutilmente al ruolo di referente della lobby nazionale delle armi.
Che dire –poi – del fronte destro, dove spicca la figura malaugurante della dama della San Vincenzo in tailleur manageriale Maria Letizia Brichetto in Moratti; insigne per aver fatto male qualunque incarico assumesse ma perfettamente in linea con il mood e il lessico del suo ambiente meneghino padronale-finanziario-consulenzialese: l’apoteosi della banalità infiocchettata. Una tipa femminile quanto uno junker prussiano (con tanto di elmetto col chiodo).
Dietro questo scenario inquietante, da espressionismo tedesco tra le due guerre alla George Grosz, danzano le ninfe egerie da Arcadia fasulla; le damine rococò sempre attente a cogliere il vento che tira, rifarsi il trucco e intercettare il bipartisan (rifugio per chi non vuole votare Draghi for president e subito dopo andare a elezioni). Spicca il nome della presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati tutta pizzi e falpalà svolazzanti nei viaggi di piacere sugli aerei di Stato, ma anche nota per la saldezza dei propri convincimenti che la spinsero a giurare che Ruby Rubacuori era la nipote di Mubarak. Né vanno trascurate le tempre da establishment di Marta Cartabia (versione Comunione e Liberazione) e Anna Finocchiaro (versione piccista), già presenti nella lista Maraini presunta “di sinistra”.
Parliamoci chiaro: questa è la fauna e continuerà a restare tale fino a quando i criteri di selezione della donna pubblica saranno quelli attuali, improntati alla più rigida segmentazione in base a criteri maschilistici. E fino a quando il movimento delle donne non riacquisterà lo smarrito spirito combattivo contro le logiche gerarchiche che ingabbiano l’altra metà del cielo, assoggettandola ai principi patriarcali che montano nell’attuale restaurazione in corso.
Finché le cose staranno così un presidente donna resterà soltanto una operazione di facciata, illusoria e soprattutto depistante. Come – diciamocelo francamente – l’elezione di un presidente nero negli Stati Uniti (il centrista, prudentissimo Obama) non ha minimamente modificato la natura intimamente razzista dell’America profonda.
Il problema è che il ricambio sia di pelle che di genere o porta con sé cambiamenti nella struttura del pensiero dominante oppure è un alibi, una finzione. Difatti il lancio dell’ipotesi Liliana Segre presidente è durato lo spazio di un mattino (seppure raccogliendo una miriade di firme a favore), proprio perché l’ordine dominante la percepiva alla stregua di un corpo estraneo da rigettare immediatamente. E lo stesso vale per altre donne degne di menzione per alti valori di indipendenza e alternatività, quali la giurista Lorenza Carlassale o la scienziata senatrice a vita Elena Cattaneo. Che questa politica mai e poi mai intenderà prendere in considerazione.