Il 6 gennaio 2021 migliaia di facinorosi sostenitori dell’allora presidente Donald Trump, da lui sobillati, diedero l’assalto al Congresso degli Stati Uniti, cercando d’impedire a senatori e deputati di certificare la vittoria di Joe Biden nelle elezioni presidenziali del 3 novembre: cinque le vittime, fra cui un agente.
Un anno dopo, l’81% dei siti che contribuirono ad alimentare la sommossa e ad innescare la presa del Campidoglio di Washington continua a diffondere notizie false sulle elezioni ‘truccate’; e continua ad essere foraggiato con decine di milioni di dollari dalla pubblicità programmata d’aziende incuranti di chi finanziano.
Se è vero che “i maggiori nemici della democrazia sono le menzogne e la stupidità” – copyright Emmanuel Macron in un’intervista a Le Parisien -, almeno lato menzogne gli americani sono davvero mal messi. La stampa Usa più qualificata s’interroga come sia possibile che Trump mantenga la sua presa sull’elettorato e sul partito repubblicani nonostante gli eventi del 6 gennaio (New York Times), e sul perché “il mondo continui a vedere qualcosa che non funziona nella democrazia americana” (Washington Post).
Buona parte delle ragioni stanno in quell’81% e nella perdurante popolarità di palesi bufale, tipo elezioni rubate e complotti alla QAnon. Ma Trump può anche contare sull’ignavia e sulla grettezza dei Congressmen repubblicani, che, in vista delle elezioni di midterm dell’8 novembre, badano più a conservare il posto che a tutelare la verità e la democrazia: se si mettono contro il magnate, rischiano di perdere le primarie repubblicane e il loro seggio ancora prima d’andare al voto.
L’esempio più lampante lo dà Kevin McCarthy, capogruppo repubblicano alla Camera: il giorno dell’insurrezione chiamò il presidente e cercò d’indurlo a fermare i suoi sostenitori (sentendosi rispondere “E’ gente che mi vuole più bene di te”); oggi, scodinzola dietro a Trump e va a prendere ordini a Mar-a-lago, in Florida, dove il magnate s’è trasferito.
Trump e i suoi sodali sono assediati dalla giustizia ordinaria e da quella politica: una commissione d’inchiesta della Camera sta indagando sulle responsabilità della sommossa che mise a repentaglio la democrazia americana; i tribunali di mezza America stanno processando i caporioni dell’insurrezione e i gruppi che la organizzarono e vi presero parte; e la magistratura di New York porta avanti l’indagine sui conti della Trump Organization, la holding di famiglia.
Ma quella che il magnate ex presidente presenta come “persecuzione politico-giudiziaria” infiamma i suoi sostenitori e alimenta il suo sentimento d’onnipotenza: “Sono il preferito della gente – dice – di gran lunga”. Trump resta l’opzione preferita dagli elettori repubblicani per Usa 2024, anche perché le potenziali alternative o sono suoi cloni (tipo la figlia Ivanka o il governatore della Florida Ron DeSantis) o sono percepiti come traditori dal popolo trumpiano (tipo l’ex vice Mike Pence o Nikki Haley).
Anche se ha rinviato il suo comizio a metà gennaio, l’ex presidente intende marcare l’anniversario del 6 gennaio ripetendo che le elezioni gli furono rubate: non è vero – nessun giudice nell’Unione ne ha trovato la minima prova -, ma molti suoi sostenitori ne sono convinti e molti notabili repubblicani fanno opportunisticamente finta di crederci.
I sondaggi dicono che l’opinione pubblica è spaccata, lungo il crinale partitico, sulle responsabilità di Trump negli eventi del 6 gennaio: è la prova che il progetto di Joe Biden di “sanare i contrasti” della società americana, uscita profondamente polarizzata dai quattro anni della presidenza Trump, non ha finora avuto successo. Del resto, l’elezione di Trump nel 2016 fu il frutto di divisioni già esistenti, non la causa. Che il magnate le abbia poi acuite e approfondite è un dato di fatto.
Le indagini su quanto avvenuto mostrano che l’assalto al Campidoglio non fu casuale: almeno 650mila post che contestavano la legittimità delle elezioni e incitavano alla violenza politica inondarono Facebook ad opera di gruppi pro-Trump nelle settimane precedenti, al ritmo di 10mila post al giorno. I messaggi, analizzati da ProPublica e dal Washington Post, fecero da incubatori della sommossa, senza che il loro potenziale fosse capito né dall’intelligence né dalle forze dell’ordine.
Anche per questo, oltre che per la facilità con cui la sicurezza fu sovrastata davanti al Congresso quel giorno, sono stati operati cambiamenti nei meccanismi di sicurezza del Campidoglio. Ma mentre i tribunali processano ProudBoys e sciamani, Trump e i suoi sodali non hanno mai smesso, dal novembre 2020 a oggi, di fare pressioni su responsabili federali, statali e locali per ribaltare l’esito delle elezioni e continuano a sollecitarli. E poi il Washington Post si stupisce che “il mondo continui a vedere qualcosa che non funziona nella democrazia americana”.