Non doveva finire così”. È la frase che si ritrovarono in mano gli investigatori subito dopo la tragedia di Montagna Longa, avvenuta nel lontano 5 maggio del 1972. Pochi giorni dopo, quando furono estratti i corpi delle 115 vittime, nella tasca della giacca di una di loro fu trovato un biglietto con questa frase. Scritta con mano malferma, forse per la tragicità del momento. Forse perché scritta mentre l’aereo dell’Alitalia ruotava su stesso poco prima di schiantarsi contro le montagne attorno a Palermo. A sottolineare questo drammatico dettaglio è Francesco Terracina, autore del libro L’ultimo volo per Punta Raisi: sciagura o strage?, ovvero del libro sull’incidente aereo “più grave mai avvenuto Italia: a Ustica morirono 81 persone, a Montagna Longa furono 115 le vittime”.

Terracina, eppure ci furono tre indagini (una svolta dalla commissione ministeriale, una dalla procura di Palermo che poi passò il fascicolo ai magistrati di Catania) ma un’unica linea: errore dei piloti.
Piloti abilissimi, uno dei quali, Roberto Bartoli, aveva perfino accompagnato il Papa Paolo VI a Nuova Delhi. Eppure comandante, primo ufficiale e motorista (anche quest’ultimo con brevetto di pilota), non si accorsero, secondo l’indagine giudiziaria, di avere superato l’aeroporto di Palermo e di trovarsi sulle montagne.

Era notte.
Era una notte limpidissima, avevano attivato ogni strumento di volo, anche il radar meteo: impossibile non accorgersi del superamento della linea di costa (l’aeroporto di Punta Raisi è davanti al mare), ma soprattutto, circa due minuti prima Bartoli aveva dato la sua posizione, aveva detto con chiarezza che si trovava in vista dell’aeroporto, pronto ad atterrare sulla pista 25.

Tutto registrato?
Sì.

Dunque secondo le indagini Bartoli improvvisamente si perse.
Esatto. Dissero che dal momento che un radiofaro era stato spostato più a sud dell’aeroporto, mantenendo però la stessa frequenza, l’equipaggio credette di trovarsi sullo scalo e invece si era spinto verso le montagne. Si ipotizzò, persino, che avessero scambiato le luci di un paesino per quelle di Punta Raisi.

Ma non andò così?
Possono tre piloti commettere, tutti nello stesso tempo, una tale quantità di errori? Non se poco prima aveva dato coordinate precise, confermate dalla torre di controllo di Punta Raisi.

Ma allora perché le indagini puntarono all’errore umano?
Perché non si trovarono, ma soprattutto non si cercarono, altre cause.

Come andarono le indagini, chi le fece?
La prima fu affidata ad una commissione d’inchiesta guidata dal generale dell’aeronautica Francesco Lino. Due settimane di indagini con il primo esito: errore umano. Poi fu aperta un’inchiesta dalla procura di Palermo, la scatola nera fu inviata, tramite il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, nei laboratori romani di Alitalia. Russo (ucciso poi dai Corleonesi nel ’77) tornò dicendo che la scatola nera era guasta da parecchie ore prima dell’incidente: il nastro si era spezzato.

E non lo era?
Oggi l’indagine del professor Marretta ci dice che era stata sabotata. E’ l’unica spiegazione, perché un guasto di questa portata, ben visibile agli equipaggi (si accende una spia rossa) non consentiva all’aereo di operare.

La procura, però, credette al guasto. L’inchiesta poi fu trasferita a Catania.
Fu trasferita a Catania perché tra le vittime c’era Ignazio Alcamo, un magistrato che per primo aveva chiesto una misura cautelare – l’obbligo di dimora – per Ninetta Bagarella, all’epoca fidanzata, poi moglie di Totò Riina, e per il costruttore Francesco Vassallo. Quando la procura di Palermo inviò il fascicolo, sostenne un pm di Catania, sulla copertina c’erano scritti i nomi dei tre piloti.

E la procura di Catania seguì quell’indizio sul fascicolo?
La colpa restò a carico dei piloti.

Nessun guasto all’aereo?
Vennero i tecnici della McDonnel Douglas, la società che aveva costruito l’aereo (ora assorbita da Boeing): esclusero questa ipotesi. Vennero anche i tecnici della Rolls Royce che aveva prodotto i motori e anche in questo caso fu escluso ci fosse un problema ai motori.

Mentre le perizie si concentrarono sulla traiettoria che portò allo schianto sulle montagne di Palermo.
Cercarono di dimostrare con una considerevole quantità di carte la strana traiettoria dell’aereo: eppure bastava acquisire il tracciato del radar di Marsala. Una procedura sicura, semplicissima, chiarissima. Nessun perito, nessun magistrato, nessun avvocato nemmeno di parte civile chiese questa acquisizione.

Perché non lo fecero?
È quello che da anni mi chiedo e chiedo anch’io. Al momento è semplicemente inspiegabile. Preferirono tutti attribuire ai tre piloti una totale incapacità di intendere e di volere.

Faceva più comodo?
Siamo nel campo delle ipotesi. Non si può escludere che si trattasse dell’esordio della strategia della tensione.

Dieci anni dopo il suo libro, però, oltre le ipotesi, ci sono nuove indagini che portano ad un ordigno piazzato sull’ala destra che fa esplodere un incendio.
Sì, questo spiegherebbe la totale perdita di controllo del velivolo e quei due minuti di silenzio. Alla torre di controllo non arriva più nessun segnale. Quando c’è una crisi tutti gli apparecchi elettrici non necessari al volo vengono spenti.

Sono i due minuti in cui quel passeggero ha scritto “non doveva finire così”.
Non lo sapremo mai. Ma di certo non dovevano finire così neanche le indagini.

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