Solo la nostra smemoratezza, aggravata dalla preoccupazioni della pandemia e della sue conseguenze, ci ha permesso di superare la vergogna di vedere nuovamente Renato Brunetta a capo del Ministero della Funzione Pubblica per un secondo giro di giostra.
Durante il primo, aveva trovato il modo di apostrofare i polizotti come “panzoni e burocrati”, inabili a garantire l’ordine pubblico e la sicurezza. Faceva parte della sua personale campagna contro i dipendenti pubblici che avrebbero dovuto “lavorare tutta la giornata”, riferendosi forse alla alta percentuale di donne impiegate pubbliche per le quali, sempre secondo lui, il lavoro era una specie di sussidio mascherato da lavoro part-time. E poi i “furbetti del cartellino” – quelli dei tornelli, delle bollature in mutande – e di tutte le altre categorie di lavativi che quotidianamente individuava, dando corpo e propaganda all’idea che l’eccessiva burocratizzazione e il malfunzionamento della pubblica amministrazione dipendessero in larga parte non già da una dirigenza priva del senso della funzione, ma dai comportamenti riprovevoli di singoli dipendenti che proprio dallo svacco dei vertici traevano robuste ragioni per trattare il proprio lavoro come rendita, per la quale la prestazione è un optional gentilmente concesso quando proprio non si ha di meglio da fare.
Una punta di misoginia, per non dire di peggio, ci stava bene: nel pubblico impiego le donne rappresentano il 57% del personale in servizio, con punte del 66% nella Sanità (dato 2017).
Oltre undici anni e una pandemia dopo, il nostro è di nuovo lì a esprimere le stesse piccole idee con la sicumera che gli è caratteristica, stavolta utilizzando come randello il “lavoro in remoto” incurante di ciò che succede intorno a lui. Per Brunetta, mandare in ufficio i dipendenti pubblici significa punirli per la loro svogliatezza, metterli finalmente in riga dopo quasi due anni di allegra baldoria dietro gli schermi dei pc nello sgabuzzino di casa coi bimbi intorno a fare casino. E così a settembre scorso ha riunito la Commissione tecnica dell’Osservatorio nazionale del lavoro agile, con una scelta definita da Mariano Corso, uno dei membri, “legata non a esigenze dei vari rami dell’amministrazione, ma al teorema populistico dei furbetti del cartellino”. Perché siamo alle solite: secondo ampi settori del mondo della politica e dell’economia (non tutti di destra: contribuisce parecchio anche la sinistra di un tempo) i dipendenti pubblici nel nostro paese non solo sono svogliati, ma sono anche troppi.
Sburocratizzare per loro vuol dire ridurre il numero di addetti, soprattutto nei settori preposti ai controlli: dalla vigilanza sanitaria alla sicurezza sul lavoro, dalla pubblica sicurezza alla ricognizione “di sostanza” degli appalti, la loro conduzione e la congruità dei costi, del loro rapporto coi benefici e così via. Così si incoraggia la sistematica disapplicazione delle leggi anche laddove sono il pane di chi deve farle rispettare: nessuno risponde dei danni alla collettività, da quelli ambientali, alle morti per incidenti sul lavoro.
Gli altri stiano pure a vivacchiare negli uffici, basta che la burocrazia non si metta in mezzo nel processi economici che da trent’anni a questa parte spostano risorse e funzioni dal pubblico al privato, svuotando gli uffici della pubblica amministrazione di competenze e ambizioni, così da renderli facilmente governabili da una dirigenza che si vuole che aspiri al “quieto vivere” al servizio dei politici in cambio di stipendi e incentivi che nulla hanno da invidiare al privato. Così, fra blocchi delle assunzioni e precarizzazione di funzioni, nella pubblica amministrazione manca una generazione, quella compresa grosso modo fra i 30 e i 45 anni, giusto le professionalità che costituiscono l’asse portanti del settore privato. Quella a cui oggi dovrebbero essere affidate le risorse del Pnrr (con i contratti a termine di Brunetta!), perché le spendano al meglio dimostrando al paese che la pubblica amministrazione funziona, mentre figli e nipoti si preparano a pagare domani le rate dei prestiti di oggi.
I dipendenti pubblici in Italia non sono troppi, perfino valutando gli effetti pratici delle politiche di contenimento/blocco delle assunzioni in tutti i settori della pubblica amministrazione (Ministeri, Aziende Autonome, scuola, settore sicurezza, magistratura, università, enti pubblici non economici, enti di ricerca, regioni ed enti locali e il Servizio sanitario nazionale) degli ultimi trent’anni. Nel 1991 erano in totale 3.228.118, nel 2000 erano scesi a 3.063.189, a fronte di una popolazione sostanzialmente stabile intorno ai 56 milioni. Negli ultimi vent’anni il numero ha ricominciato a salire per arrivare ai 3.212.450 odierni. Quasi 300 mila sono prossimi alla pensione e la previsione di nuovi ingressi nel 2022 mediante concorsi si assesta su 119 mila unità.
Considerando che 1.236.580 dipendenti operano nell’istruzione e che 736.875 lavorano nella sanità pubblica, si comprende abbastanza bene che le altre amministrazioni, centrali o territoriali, occupano oggi circa un milione di addetti, a fronte di una popolazione che nel frattempo è arrivata a 60 milioni di persone. Hanno 50 anni in media, in linea peraltro con una popolazione sempre più vecchia e non sempre capace di guardare con favore a politiche di incremento vero della natalità e, quando occorre, dell’immigrazione.
La ricerca Lavoro pubblico 2021 presentata nel luglio scorso da ForumPa fornisce utili comparazioni con gli altri paesi europei, dotati di una struttura burocratica simile alla nostra: in Italia lavora nel settore pubblico 13,4% degli occupati, in Francia il 19,6%, nel Regno Unito il 16%, in Spagna il 15,9%. Solo la Germania sta sotto, al 10,8%, ma nel dato non sono comprese diverse attività svolte in proprio dal Länder. Il rapporto denuncia la mancanza di formazione in itinere (1,2 giorni l‘anno in media), ancora più desolante rispetto all’acquisizione di competenze digitali (il 5% dei dipendenti), e dà anche conto del raddoppio del numero dei laureati rispetto a dieci anni fa: oggi sono il 41,5% del totale. Insomma qualcosa nella composizione del personale sembra essere cambiato; assai meno sono cambiate le modalità organizzative e la gestione della macchina burocratica.
Tornando al lavoro da remoto, nel 2019 era l’1% dei dipendenti a esserne interessato. Con lo scoppio della pandemia il numero degli smart workers è salito al 33% nella primavera del 2020. La ricerca stima che il dato avrebbe potuto essere il doppio, visto che il 65% delle attività della pubblica amministrazione potrebbe essere normalmente svolto a distanza.
Così siamo tornati al principio: la cattiva organizzazione del lavoro e la gestione deficitaria delle dirigenza in alcuni settori importanti della burocrazia pubblica – che riversando così sui cittadini costi economici e umani dell’inefficienza colpevole, della mancanza di regole definite e di leggi comprensibili, il tutto a uso e consumo dei soliti – viene allegramente mischiata e confusa con una modalità di lavoro che avrebbe bisogno di essere sperimentata, controllata, misurata e continuamente riorganizzata per produrre finalmente efficienza.
Il mescolone, complici politica e tanta stampa, serve a distruggere quello che resta dello Stato per dare i rimasugli in pasto ai portatori di interessi privati e, a volte, perfino criminali, per di più conditi da un bel pacco di miliardi che spenderanno con una spensieratezza che già si comincia a intravedere.
Allora, chi sono i “furbetti del Covid”?