Le tensioni hanno coinvolto Eln - Esercito di liberazione nazionale - e Farc - Forze armate rivoluzionarie di Colombia, oggi sciolte e trasformate in partito - nel dipartimento di Arauca. Secondo l'organizzazione Indepaz, dei 331 difensori dei diritti umani uccisi in tutto il mondo nel 2020, 177 sono stati uccisi qui
La Colombia inizia il 2022 come aveva finito il 2021: all’insegna della violenza. Se possibile anche peggio, dopo la carneficina costata almeno 27 vite, civili compresi, nello scontro tra opposte fazioni di guerriglieri in una zona rurale ai confini con il Venezuela. Il tutto in un crescendo di tensione proprio con Caracas, tra accuse incrociate e rafforzamento delle rispettive presenze militari. Sullo sfondo: le ombre sul narcotraffico e le cifre impietose delle ong, che fotografano un paese dove il pieno rispetto dei diritti umani è merce rara. Soprattutto per contadini, indigeni e leader sociali.
Domenica 2 gennaio, nel dipartimento di Arauca, si sono verificati scontri armati tra guerriglieri dell’Eln (Esercito di liberazione nazionale) e dissidenti delle Farc (Forze armate rivoluzionarie di Colombia, oggi sciolte). In meno di 24 ore i morti sono stati almeno 27, ma il balletto delle cifre non è definitivo. Anzi, il bilancio potrebbe essere più grave. Oltre duemila gli sfollati segnalati dalle autorità nei comuni di Tame, Fortul, Saravena e Arauquita. A fronteggiarsi, alcuni membri dell’Eln (gruppo nato negli ’60 da studenti marxisti) e delle ex Farc, oggi trasformatesi nel partito Farc (Fuerza alternativa revolucionaria del común), con cui i dissidenti che sono tornati a imbracciare le armi non hanno a che fare.
“Il giorno più violento degli ultimi dieci anni”, secondo Juan Carlos Villate, difensore civico di Tame, a pochi chilometri dallo stato federato venezuelano di Apure. La rottura di un “patto di non belligeranza” tra i due gruppi, secondo il governatore di Arauca Alejandro Navas Ramos. Sui social circolano immagini di cadaveri civili stesi a terra. Un vero e proprio conflitto a fuoco tra due gruppi armati irregolari, che ha acceso i riflettori sull’instabilità del paese sudamericano, lacerato storicamente da fiumi di sangue.
Immediate le reazioni a Bogotà, a partire dal presidente colombiano Iván Duque, che, dopo il consiglio di sicurezza e una riunione operativa con i settori della Difesa, ha annunciato un rafforzamento della presenza militare regolare, di concerto con il ministro della Difesa Diego Molano. Proprio quest’ultimo accusa i guerriglieri di connivenze con le organizzazioni criminali che gestiscono i fiumi di cocaina della zona. Anche l’esercito colombiano, in un comunicato, ha attribuito al “controllo delle economie illecite” l’origine degli scontri. Un batti e ribatti di accuse, perché anche l’Eln, con una nota, ha preso posizione sulla vicenda. Sostenendo di aver agito per “difendere il territorio” dall’offensiva nemica, dietro la quale, sempre secondo i ribelli dell’Eln, ci sarebbe un piano ordito dal governo colombiano e dagli Stati Uniti, in particolare dalla Dea e dalla Cia.
Ma il governo colombiano si è scagliato soprattutto contro il Venezuela di Nicolás Maduro, presidente considerato illegittimo a Bogotà. Perché se da un lato si chiede, anche da parte dell’opposizione di sinistra, un cessate il fuoco tra i gruppi armati per proteggere la popolazione civile dalle ostilità, dall’altro la maggioranza di destra al governo accusa il Venezuela bolivariano di “proteggere” i gruppi violenti di casa. Accuse respinte nettamente al mittente da Caracas, che contrattacca accusando Duque di essere “il peggior presidente della Colombia” (parole di Vladimir Padrino López, ministro della Difesa venezuelano). Anzi, l’escalation di violenza e l’invio di truppe da parte del governo colombiano ha portato il Venezuela a intensificare il presidio dei suoi confini da parte della Fanb (Fuerza armada nacional bolivariana). Va detto che proprio dalla Colombia sono scaturiti, nel tempo, tentativi di incursione armata ai danni del Venezuela, spesso a opera di paramilitari. Tra le più note, la cosiddetta operazione Gedeón del maggio 2020, quando un gruppo di dissidenti venezuelani, in accordo con la compagnia militare privata statunitense Silvercorp, cercò di rovesciare il governo di Maduro. Senza riuscirci.
Se il 2022 comincia con omicidi e tensione, però, il 2021 non è stato da meno. Ennesima conferma che la pace faticosamente raggiunta con gli Accordi del 2016, dopo oltre 50 anni di guerra civile, davvero stenta ad arrivare. Proprio pochi giorni fa sono usciti alcuni rapporti stilati da altrettante ong, tra tutte Indepaz, l’Istituto di studi per lo sviluppo e la pace. Un quadro a dir poco agghiacciante della violenza in Colombia, in particolare ai danni di contadini, indigeni e leader sociali, figure impegnate nella difesa dei diritti umani. Novantasei massacri e 335 persone uccise nell’anno appena trascorso. Con 1284 leader sociali assassinati dal 2016 al 31 dicembre 2021. Una tra le ultime vittime, in ordine di tempo, è il giovane cantante Javier Castillo.
Sempre dai dati Indepaz, dagli Accordi di pace del 2016 al 2021 sono stati assassinati 299 firmatari degli accordi stessi. Che la Colombia non protegga, inoltre, i difensori dei diritti umani emerge anche dalla ong Front Line Defenders, secondo la quale dei 331 difensori dei diritti umani uccisi in tutto il mondo, 177 sono stati uccisi solo in Colombia (dati riferiti al 2020). Una strage continua, spesso a opera dei gruppi paramilitari, in accordo con i narcos. Senza contare le terre sottratte ai contadini e non restituite: altro crimine che grida vendetta. Secondo l’Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite e Indepaz, la Colombia è il paese con più massacri al mondo: 286 dal 2016. E ancora: la Colombia svetta nella classifica mondiale per il maggior numero di sfollati (fonte: Codhes), mentre raggiunge il secondo posto, dietro la Turchia, per quanto riguarda la violenza sulle donne (dati Ocse) e gli omicidi ai danni dei giornalisti: nove negli ultimi cinque anni, meno solo del Messico (fonte: Reporters sans frontières).