La rivolta era nell’aria. L’aumento delle tariffe del gas, del Gpl in particolare, si è presentato come il casus belli perfetto.

Viaggiando in Kazakistan non era difficile leggere sui volti della gente l’imbarazzo verso una classe dirigente obsoleta. Nel paese euroasiatico ogni cosa ruota intorno alla galassia Nazarbayev, un clan che fa capo al vecchio leone Nursultan, oggi ultraottantenne, rimasto aggrappato al potere dal 1991, anno dell’indipendenza dall’ex Unione Sovietica, al marzo del 2019, momento della sua abdicazione in favore del “delfino” Kassym-Jomart Tokayev.

Non le parole ma i volti. Non è facile per un kazako lasciarsi andare con uno straniero, ancor più se occidentale, che fa domande sulla condizione politica o sociale del paese. Si fa fatica a vincere il sospetto di essere ascoltati da orecchie indiscrete, talvolta è invece l’orgoglio nazionalista a prevalere, impossibile parlar male di un paese che in pochi decenni è passato dal semi-nomadismo alla modernità attraverso lo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo. Perciò tocca affidarsi all’interpretazione del gesti, o ad un ghigno che segnala un malessere profondo verso un clan familiare che ha sempre tenuto stretto il giogo del potere sul collo della gente.

I Nazarbayev si collocano al vertice di una ristretta nomenklatura che controlla il potere esecutivo, il Parlamento, le università, gli organi di informazione e soprattutto le risorse minerarie. I gerarchi hanno un bel da fare con la gestione di gas e giacimenti petroliferi del Caspio, nelle mani di Ersai, un consorzio un tempo partecipato anche dall’italiana Saipem-Eni. Non pochi ritengono che dei profitti e delle royalties ben poco rimanga nelle casse dello Stato: i vantaggi per la collettività sono riversati nel prezzo contenuto del carburante al distributore e nelle ridotte tariffe del gas per uso domestico. Benefici che fanno schizzare i consumi nel lunghissimo inverno kazako o inducono al diffuso utilizzo delle autovetture nelle strade di Nur-Sultan, di Almaty, il centro economico più importante, o lungo i cammini che tagliano le steppe della regione di Mangystau, epicentro della rivolta.

Venuta meno la politica di calmierazione del prezzo del Gpl in favore di soluzioni affidate al libero mercato, le stazioni di servizio in pochi giorni hanno raddoppiato le tariffe passando dai 60 tenge – la moneta locale – (pari a 0,14 dollari) ai 120 tenge (0,28 dollari) al litro.

L’aumento del Gpl è stata la scintilla che ha innescato la rivolta, ma è l’eredità sovietica a pesare come un macigno sulla società civile, la stretta soffocante sull’informazione, il rigoroso controllo sulle organizzazioni per i diritti umani, l’impossibilità nei fatti di esprimere un’opposizione politica, con le consultazioni elettorali ridotte a messinscena del regime.

E poi il grande cancro nazionale, la corruzione. Un sistema statuale che si dice repubblicano percepito come vera e propria cleptocrazia, fenomeno dilagante tra le pieghe della burocrazia, negli uffici dei tribunali, negli apparati di polizia, in ogni sfaccettatura della cosa pubblica. Il paese è 94esimo negli speciali indici elaborati da Transparency International sulla corruzione percepita, ma l’impressione è che la popolazione avverta ovunque, e con crescente intensità, malcostume e degenerazione etica.

Questo è il momento della repressione, dopo giorni di blocchi, su entrambi i fronti, con lo stato d’emergenza che ha paralizzato cellulari, internet, mezzi di informazione, e coi lavoratori uniti ai rivoltosi per fermare i campi petroliferi sul Mar Caspio, le industrie, il grande stabilimento siderurgico della Arcelor Mittal a Temyrtau, nella regione di Karaganda. Fortissimi disordini si registrano in ogni angolo del paese, nel nord come al sud, a Taraz, vicino al confine con il Kirghizistan, sono sotto attacco le stazioni di polizia.

Il regime vacilla, probabilmente lo salveranno le forze alleate (russi in testa, affiancati da bielorussi, tagiki, kirghisi e armeni) che in base al “Collective Security Treaty Organization” (CSTO) per la prima volta potranno dispiegarsi nel territorio di un paese membro. E’ Vladimir Putin che conduce il gioco nell’area, la minoranza russa è consistente (oltre il 20% del totale) e influente malgrado le politiche governative dirette a limitarne il peso, anche in campo linguistico.

Il Cremlino ha imposto un’interpretazione forzata dell’articolo 4 del Trattato di cooperazione sulla sicurezza, secondo cui un’aggressione militare giustifica l’intervento di forze congiunte. Le norme vanno riadattate alle circostanze, ed ecco che un moto rivoluzionario intestino viene “qualificato” come aggressione di bande terroristiche formatesi all’estero. La mano pesante, l’hard power di Putin, ha il giusto sostegno prescrittivo.

Centinaia di avvocati hanno dichiarato la disponibilità alla difesa gratuita dei manifestanti incarcerati e in via di identificazione per ordine del Procuratore generale. E’ una chiara svolta, in un paese nel quale è difficile trovare un legale che, in tempo di pace, sia disposto a patrocinare un privato perfino in una causa civile contro un ente dello Stato.

Chissà, ci vorrà ancora del tempo, ma un giorno la capitale Nur-Sultan – così battezzata per decreto per celebrare il vecchio Nazarbayev all’atto del suo passaggio di potere – tornerà a chiamarsi Astana.

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