L’imminente addio di Sergio Mattarella segna l’uscita di scena dalla politica attiva dell’ultimo esponente del cattolicesimo democratico e sociale. Ce ne sono in pensione (pensiamo a Romano Prodi o Rosy Bindi) ma non se ne trovano più di impegnati nella quotidianità politica.
Cattolica Giorgia Meloni? Il suo “sono donna, madre, cristiana” è impregnato di quel caudillismo clerico-nazionalista in cui si riconoscono le radici del neofascismo viscerale. Mancano invece nel suo partito battaglie incisive contro la rete di padroncini, che in tante parti d’Italia si servono del caporalato per sfruttare migliaia di donne (e uomini) nei lavori agricoli. La mafia interessa propagandisticamente se è nigeriana, quella nazionale non sembra avere grandi nemici a destra. La famiglia va bene come icona altissima e purissima, non interesse se ha il volto reale delle famiglie taglieggiate dalla mafia dei grandi mercati ortofrutticoli.
Matteo Salvini agita rosari e invoca ardentemente la Madonna, ma il suo afflato clerico-patriottico si spegne quando si tratterebbe di battersi per liberare la meglio gioventù italiana dalla palude di un precariato di massa e in continua espansione, che soffoca qualsiasi progetto di lungo respiro per il futuro. L’idea di prossimo, per il leader della Lega, si arresta alle sfere economiche forti e a quelle partite Iva in grado di incassare facilitazioni fiscali unite ad altrettante evasioni: le false partite Iva, spremute in decine di migliaia di aziende, il capitano leghista non le vede.
Sulle ascendenze cattoliche di Matteo Renzi non c’è da preoccuparsi molto. Il cattolicesimo democratico, il cattolicesimo “adulto”, gli è ignoto. Quando Prodi tentò di introdurre in Italia le unioni di fatto, Renzi si intruppò nell’opposizione ai Dico, accucciandosi ai veti di Benedetto XVI e di una Cei forgiata dal cardinal Ruini. Quando fu chiaro a tutti che papa Francesco non avrebbe mosso un dito per contrastare una legge sulle unioni civili, il leader toscano trovò il coraggio per realizzarla.
Il ministro della Giustizia Marta Cartabia, di formazione ciellina? E’ difficile rintracciare un elevato pensiero costituzionale cattolico nel processo-orologio, da lei varato. Una perversione sia rispetto alla tradizione processuale derivata dal diritto romano sia rispetto al diritto anglosassone. Un meccanismo che accontenta “interessi forti” ma non rende giustizia né alle vittime né agli accusati innocenti.
Stupisce che Cartabia non abbia affondato il bisturi nei cavilli e nei grovigli procedurali, che impediscono in Italia processi rapidi (come ad esempio negli Stati Uniti) a tutto vantaggio dei “potenti”. C’è molto profumo di realpolitik ciellina e molto poco di costituzionalismo cattolico-democratico nell’indirizzo dell’attuale ministero di Giustizia.
In questo panorama l’ultimo discorso di Capodanno di Mattarella rappresenta una sorta di lascito di quel cattolicesimo politico democratico che ha contribuito fortemente a fare crescere la Repubblica dopo la guerra. Un lascito scandito in temi basilari. La consapevolezza che la Costituzione non è un documento stantio di prescrizioni più o meno assemblate e assemblabili, ma il “fondamento saldo e vigoroso dell’unità nazionale”: attualissimo nei suoi “principi e valori che vanno vissuti dagli attori politici e sociali e da tutti i cittadini”.
L’insistenza su un patriottismo che non si nutre di odio e spaccature (i buoni contro i cattivi secondo il vangelo dei sovranisti e dei trumpiani d’Europa e delle Americhe) bensì si manifesta nella leale e convinta collaborazione tra istituzioni e cittadinanza per il bene comune: “Il volto reale di una Repubblica unita e solidale… il patriottismo concretamente espresso nella vita della Repubblica”.
Infine, nell’intervento di Mattarella, emerge un caposaldo del cattolicesimo sociale che nel chiacchiericcio politico e mediatico rimane sistematicamente in ombra (e non a caso, poiché non è interesse dei potentati economici che venga affrontato): il problema grave delle disuguaglianze.
Il cattolico Mattarella non ha fatto sconti. Ha criticato chi guarda alla realtà con “filtri di comodo”, ha ricordato che nel corso della pandemia alle antiche diseguaglianze se ne sono aggiunte di nuove, prima fra tutte la diffusa precarietà. Ha contraddetto il mito liberista secondo cui la crescita economica di per sé risolve tutto: “Le dinamiche spontanee dei mercati – ha detto – talvolta producono squilibri o addirittura ingiustizie che vanno corrette”.
Così le parole del presidente della Repubblica si ricollegano al punto focale dell’omelia pronunciata da papa Francesco alla viglia di Natale. La questione delle disuguaglianze e delle ingiustizie crescenti, che toccano in primo luogo il lavoro. “Dio stanotte – ha sottolineato il pontefice – viene a colmare di dignità la durezza del lavoro. Ci ricorda quanto è importante dare dignità all’uomo con il lavoro, ma anche dare dignità al lavoro dell’uomo, perché l’uomo è signore e non schiavo del lavoro”. Di qui il monito a far cessare le morti sul lavoro.
Resta la domanda su chi sono o possano essere i partiti e gli esponenti politici capaci di prendere in mano il testimone che un cattolicesimo democratico e sociale al tramonto – almeno per quanto riguarda le sue figure rappresentative – affida a nuove generazioni.
Il governo Draghi ha mostrato in questi mesi di operare attivamente per una ripresa della crescita, accompagnata dove è possibile da coesione sociale. Ma è ormai chiaro che l’attuale governo non è minimamente incamminato verso la costruzione di una “nuova economia sociale di mercato”. I segnali sono incontrovertibili. Non c’è redistribuzione di ricchezze, anzi la riforma fiscale realizza una redistribuzione a vantaggio dei ceti medio-alti. E’ inesistente la lotta all’evasione fiscale, una mostruosità sociale nel momento in cui (a parte gli aiuti europei) tutto il peso economico della struttura sanitaria impegnata a combattere la pandemia e sostenere i contagiati sta sulle spalle dei cittadini che pagano le tasse. E sono sempre loro che pagano il peso del deficit necessario per l’ampio ventaglio di incentivi all’economia.
Infine non c’è nessuna inversione di tendenza rispetto ad una precarizzazione del lavoro ormai selvaggia e alle false partite Iva. Francesco ha detto da subito che dalla crisi si esce “o meglio o peggio”. In Italia e in molti altri paesi del mondo i segnali indicano: per quanto riguarda le condizioni sociali, peggio.