La vera sorpresa delle rivolte nel Paese centro asiatico si è avuta quando il presidente Kassym-Jomart Tokayev ha invocato il supporto dell'alleanza difensiva Csto, formata da Bielorussia, Armenia, Kirghizistan, Tagikistan e soprattutto da Mosca. Tra gli abitanti, è diffuso il malcontento per la sudditanza nei confronti del Cremlino che riporta la mente all'epoca sovietica, ma così il presidente si garantirà il mantenimento del potere. Ancora non è chiaro a quale costo
La rivoluzione tentata – e per ora fallita – in Kazakistan è legata a ragioni prettamente interne. Oltre alla miccia, l’aumento del prezzo del carburante, a pesare sono stati soprattutto decenni di autoritarismo e corruzione che hanno portato all’esasperazione la popolazione della Repubblica centro asiatica. Ovviamente, però, la crisi del Paese potrebbe avere pesanti ripercussioni anche a livello internazionale. Il Kazakistan ha infatti un ruolo geopolitico notevole, legato sia alla sua posizione geografica – e alla sua dimensione, essendo il nono paese più esteso del mondo – che alle ingentissime risorse di idrocarburi di cui dispone.
La vera sorpresa della vicenda si è avuta quando il presidente kazaco Kassym-Jomart Tokayev ha invocato il supporto militare dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto) per tenere a bada le mobilitazioni, fattesi ora dopo ora sempre più partecipate e accese. Si tratta di un’alleanza di sicurezza guidata dalla Russia e composta, oltre a quest’ultima, da Kazakistan, Bielorussia, Armenia, Kirghizistan e Tagikistan. Esiste dal periodo immediatamente successivo al dissolvimento dell’Unione Sovietica, ma fin dalla sua nascita si era dimostrata estremamente carente (per usare un eufemismo) dal punto di vista operativo. E le occasioni di intervento non sono mancate, basti pensare alle rivoluzioni del 2005, 2010 e 2020 in Kirghizistan o al conflitto tra Armenia e Azerbaigian del 2020 legato al Nagorno-Karabakh. Ma l’inazione questa volta non c’è stata. Poche ore dopo la richiesta del successore di Nursultan Nazarbayev, circa 4mila militari provenienti da vari Paesi aderenti all’organismo, ma soprattutto russi, sono infatti giunti sul territorio kazaco. Scatenando da più parti critiche, arrivate anche dagli Stati Uniti, e sicuramente creando ulteriore insofferenza nella popolazione kazaca che in larga parte vede negativamente la sudditanza rispetto alla Russia.
Difficile capire il loro effettivo ruolo sul terreno, ma il significato geopolitico di tale operazione è difficilmente sottostimabile. Inutile nascondere che Csto è in sostanza sinonimo di Russia e che probabilmente proprio Vladimir Putin uscirà vincitore dalla vicenda. Innanzitutto perché l’intervento militare non dovrebbe protrarsi a lungo, dispendio limitato che accresce ancora di più il valore del risultato politico ottenuto da Mosca. Il Kazakistan è infatti da decenni un alleato di ferro del Cremlino, con particolare riferimento al settore energetico e della sicurezza, ma quanto sta accadendo nel Paese centro asiatico porterà questo legame a un livello ancora superiore. In sostanza, Tokayev ha sacrificato la sovranità nazionale kazaca mettendo nelle mani di Putin la sopravvivenza del suo regime.
E si può star certi che quest’ultimo saprà far pesare in maniera più o meno esplicita il suo ruolo nella tenuta – per ora presunta, ma con il passare delle ore altamente probabile – del governo di Nur-Sultan. Sulla falsariga di quanto l’inquilino del Cremlino fa con l’Europa sul fronte energetico, sfruttando politicamente, ogni volta che ne ha l’occasione, il ruolo di principale fornitore di gas naturale dell’Ue. Non va dimenticato inoltre che Russia e Kazakistan condividono uno dei più lunghi confini terrestri al mondo – 7mila chilometri – e che la parte settentrionale del territorio kazaco è un’area da sempre a maggioranza russofona. Insomma, i modi per ottenere compensazione a Putin non mancano.
La Cina, dal canto suo, rimane per ora alla finestra. L’appoggio ufficiale di Xi Jinping a Tokayev è arrivato durante una telefonata tra i due, ma senza dubbio la decisione del presidente kazaco di guardare immediatamente alla Russia per ottenere aiuto non è passata inosservata a Pechino. Il Kazakistan è infatti molto vicino anche alla Repubblica Popolare. A livello innanzitutto logistico, con le Vie della Seta cinesi che hanno nel Paese uno snodo fondamentale. Non a caso, proprio dal territorio kazaco, Xi ha lanciato il progetto nel 2013 e dall’indipendenza del Paese centro asiatico i cinesi vi hanno investito decine di miliardi di dollari. Ma anche a livello energetico: circa un quinto del gas naturale importato dalla Cina deriva o comunque transita per il Kazakistan e Pechino ha in Nur-Sultan uno dei principali fornitori anche di petrolio e rame. Le autorità cinesi hanno mostrato ottimismo circa la tenuta di questi scambi nel breve periodo, ma molte compagnie internazionali, tra cui la Chevron, hanno dichiarato grandi difficoltà nel portare avanti le proprie operazioni nel mezzo della tempesta politica e sociale kazaca. La vicinanza di Cina e Kazakistan è anche sul fronte della sicurezza. La Repubblica centro asiatica è infatti anche uno dei membri fondatori della Sco – Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai – a guida cinese. Che ha uno scopo diverso dalla Csto, esplicitamente un’alleanza difensiva, ma alla quale comunque Tokayev avrebbe potuto rivolgersi per un supporto. Soprattutto considerando che il presidente kazaco ha parlato di (non meglio precisate) “infiltrazioni terroristiche” dietro alle mobilitazioni e che la Sco ha tra i suoi obiettivi principali proprio l’attività di antiterrorismo.
Sulla base anche di queste considerazioni, la decisione di Tokayev di invocare l’intervento della Csto sembra una vera e propria scelta di campo (geo)politica. Anche perché dal punto di vista strettamente militare, è difficile pensare che poche migliaia di soldati possano fare la differenza in un Paese, come il Kazakistan, dove i tagli al budget non hanno mai riguardato le forze di sicurezza. Il presidente kazaco ha probabilmente visto in Putin l’unico alleato in grado di garantirgli il mantenimento del potere, sia rispetto all’insofferenza della popolazione che a quella di altri membri della nomenklatura. Il risultato sembra essere stato raggiunto, perlomeno nel breve periodo. Ma è più avanti che i veri costi occulti di questa scelta emergeranno con forza.