La 41enne Adalgisa Gamba, scrive il gip di Torre Annunziata nelle 18 pagine di ordinanza, “ha programmato il gesto”, aspettando che il marito non fosse a casa per uscire con il piccolo Francesco di appena due anni e mezzo. La mamma “non nutriva alcun affetto nei confronti del figlio, al punto di definirlo in maniera dispregiativa "brutto"" e desiderarne la morte
“Confermo che il bambino è stato sempre nelle mie braccia, gli parlavo ma non davo peso al fatto che fosse sotto l’acqua… perché ogni tanto arrivava l’onda e lo sommergeva… non piangeva ma comunque si muoveva… io guardavo il mare e pensavo alla libertà, senza rendermi conto di tutto il resto. Ho avvertito una sensazione di liberazione, per me e per quella che sarebbe stata la vita di mio figlio. Credo di non essere stata in me”. È il passaggio forse più agghiacciante della confessione di Adalgisa Gamba, la 41enne in carcere da giorni con l’accusa di aver annegato e ucciso il suo piccolo Francesco – di appena due anni e mezzo – nelle acque di un lido balneare di Torre del Greco. Perché temeva che fosse autistico, perché non parlava. Il brano è estratto dall’interrogatorio reso dalla donna al pm di Torre Annunziata Andreana Ambrosino (alla presenza dell’avvocato Tommaso Ciro Civitella) ed è citato nelle 18 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Fernanda Iannone.
Il documento restituisce particolari inediti della dinamica di quello che secondo la Procura guidata da Nunzio Fragliasso è stato “un omicidio premeditato”. La donna, ribadisce il gip, “ha programmato il gesto”, aspettando che il marito non fosse a casa per uscire con il figlio, spegnendo il cellulare per rendersi irreperibile, evitando – durante il tragitto casa-spiaggia – di fermarsi presso le giostre “per non essere notata”. La signora Adalgisa, come emerso dalle chat Whatsapp con il marito depositate agli atti, “non nutriva alcun affetto nei confronti del figlio, al punto di definirlo in maniera dispregiativa “brutto”, nonché si doleva dei continui pianti del bambino, addirittura auspicando la morte del piccolo nei seguenti termini: “o vogliamo farlo schiattare e magari si toglie il vizio””.
Per l’indagata, “la paura dell’autismo era diventata un’ossessione che da due mesi le aveva impedito di vivere serenamente, le aveva sottratto il sonno, le aveva provocato un ininterrotto stato d’ansia e persino continui tremori al corpo”. E come era nata questa ossessione? Attraverso “una diagnosi fai-da-te su Google”. Anche se, a precisa domanda del giudice, la donna ha risposto “di non conoscere il reale significato di questa patologia”. Nell’interrogatorio di garanzia di fronte al gip, inoltre, Adalgisa ha cercato di fare dietrofront modificando dettagli importanti della versione resa al pm sui particolari dell’annegamento. Manifestando così “scaltrezza e lucidità non ordinarie” perché avrebbe provato a “strumentalizzare elementi acquisiti dalla lettura degli atti” e in particolare della richiesta di convalida del fermo, in un tentativo di “dimostrare la non volontà di annegarlo”.
Un motivo in più, a parere del giudice, per confermarne la detenzione in carcere, accompagnata però dall’invito all’istituto penitenziario di Pozzuoli a compiere accertamenti sanitari urgenti “per la valutazione della compatibilità dello stato neuropsichiatrico della donna con il regime penitenziario”. A una domanda del pm sui momenti in cui si trovava in acqua col bambino, la donna ha infatti risposto “di aver pensato di fare male a me stessa, sono stanca di avere problemi. Ho messo anche la mia testa volontariamente sott’acqua, ingerendone… fino a quando la mia respirazione me lo ha consentito”. Per poi precisare “di non aver mai pensato al suicidio, è stata una decisione presa sul momento”.