Quando il 9 gennaio del 1992 Radovan Karadzic, medico-poeta di origini montenegrine, e il suo gruppo di seguaci annunciarono la nascita della Repubblica Serba di Bosnia, parte della comunità internazionale e degli osservatori quasi ci scherzò su. La decisione, tra le altre, di spostare il Parlamento della nuova entità politica in quella che ancora andava considerata ex-Jugoslavia da Sarajevo a Pale, piccolo centro montano etnicamente serbo e religiosamente cristiano ortodosso, fu vista allora come una pagliacciata senza alcun fondamento giuridico.
Il primo marzo di quell’anno il Parlamento di Sarajevo votò l’indipendenza da Belgrado e il mese successivo ebbe inizio la pulizia etnica nei confronti dei bosgnacchi con l’assedio della capitale bosniaca. C’era poco da scherzare. Oggi, trent’anni dopo, la Republika Srpska è un pezzo portante del complicato puzzle bosniaco e ne (con)divide il territorio con la Federazione croato-musulmana, oltre al distretto di Brcko. Pale è rimasto il freddo villaggio sulle montagne olimpiche di Sarajevo e il parlamento ufficiale della Rs è stato istituito a Banja Luka.
Il manipolo di invasati dell’epoca, a partire da Karadzic, diventati poi pericolosi guerrafondai, processati e condannati dalla giustizia internazionale per i crimini commessi, sembravano scomparsi dalla scena politica. I figli e i nipoti di quella drammatica stagione ne stanno riportando in vita le follie propagandistiche, tra violenze, settarismo, negazione del genocidio bosniaco e nuove mire separatiste. Il megafono di quella propaganda avvelenata oggi è Milorad Dodik, leader dell’Snsd e fino al 2018 presidente della Republika Srpska.
La mattanza di Srebrenica, cittadina termale della Rs, nel luglio del 1995 (oltre 9mila musulmani uomini tra 6 e 90 anni trucidati in una settimana), per Dodik e la stragrande maggioranza dei serbi e dei serbi di Bosnia non si è mai verificata. Camil Durakovic, 42 anni, è nato a Srebrenica e nel luglio del 1995 era un adolescente. Con la sua famiglia colpita dalla violenza serba, riuscì a scappare a Tuzla, zona di sicurezza bosgnacca, per poi essere messo in protezione negli Stati Uniti. Nel 2005 ha deciso di tornare a Srebrenica e nel 2012 ne è stato eletto primo cittadino. È stato l’ultimo sindaco musulmano della cittadina teatro del più grave atto di violenza dopo la Seconda Guerra Mondiale: “Ufficialmente la Bosnia, divisa nelle sue diverse entità politiche e etnico-religiose, è in pace dal 1995, ma l’atmosfera che si sta vivendo oggi è simile a quella che precedette il conflitto degli anni ’90. L’ideologia serba è la stessa, il partito fondato da Karadzic è ancora lì e continua a fare danni. Dodik sta portando avanti quegli argomenti e l’idea è soltanto una: separare ancora la Bosnia e la sua gente”, dice.
Durakovic oggi veste i panni dell’attivista politico indipendente e fa parte del movimento Odgovor (Risposta) che si prepara alle elezioni per il rinnovo delle cariche politiche della Republika Srprska, in programma tra pochi mesi. Odgovor è un partito multietnico e la sua linea programmatica parte da un concetto basilare: “Noi proponiamo una via alternativa ai nazionalismi etnici – spiega Durakovic -, per questo al nostro interno ci sono musulmani, come il sottoscritto, ortodossi e cattolici. Vogliamo che la Bosnia torni ad essere una nazione unica e multietnica, come accadeva prima della guerra, quando le diversità religiose erano la sua forza. Non è un compito facile, il vento spira contrario, eppure la retorica delle tre storie, delle tre verità, i tre pezzi di terra sta riportando le lancette del tempo all’inizio degli anni ’90. Dodik e i separatisti serbi di Bosnia stanno soffiando sul fuoco dell’intolleranza ed è in questo momento che la comunità internazionale deve intervenire, non nascondersi come ha fatto trent’anni fa. Mi creda, la situazione rischia davvero di scappare di mano. La retorica negazionista di Dodik e dei suoi è folle, puntano al separatismo etnico-geografico e glorificano personaggi come Ratko Mladic (ex generale dell’esercito serbo-bosniaco, condannato dal Tpi, il Tribunale penale internazionale dell’Aja per i crimini commessi in Bosnia tra il 1992 e il 1995, ndr)”.
Negare che il genocidio bosgnacco sia mai accaduto o quanto meno non nei termini narrati dalla storia e fissato come pietre miliari dai documenti e dalle condanne. Camil Durakovic rifiuta questa visione dei fatti. In particolare sulla pagina più orribile della guerra dei Balcani, Srebrenica: “In quei giorni di 26 anni e mezzo fa io c’ero a Srebrenica, i serbi non possono raccontare una verità alternativa. Anche qui stiamo tornando al passato. Il sindaco (il serbo Mladen Grujicic, ndr) non rispetta la comunità musulmana, non riconosce quanto accaduto qui nel luglio 1995 e ha messo fuori la lingua bosniaca dalle scuole. A piccoli passi verso un destino segnato. Il suo partito e la sua maggioranza mi hanno rimosso da Presidente dell’Assemblea legislativa del Comune, con loro non c’è dialogo”.