In questi ultimi due anni la pandemia non ha modificato soltanto le nostre abitudini sociali e lavorative, ma, spesso, ci ha obbligati ad assimilare un lessico scientifico attraverso la fruizione di parole che hanno occupato in maniera preponderante i media tradizionali, tv, giornali, internet, e quelli più recenti come i social network. Parole come contact tracing, conference call, distanziamento sociale, didattica a distanza, coronavirus, sono entrate prima negli smartphone degli italiani, e poi nel linguaggio comune. Parallelamente, però, c’è stata l’affermazione di parole usate soltanto dalle generazioni più giovani, gli zoomer o generazione Z, nati tra il 1997 e il 2010, che prediligono canali più di moda come i social tik tok e twitch. Sono espressioni, spesso, derivanti dal registro linguistico anglofono come meme, cringe, flex, trigger, ship, crush (che sta per cotta e non per schiacciare), e le loro relative verbalizzazioni.
Si entra in un mondo sconosciuto ai cosiddetti “baby boomer” – gli attuali sessantenni – e anche poco frequentato dai millennial, se non quelli più avvezzi all’uso gergale dei creator del web. Se il pre-pandemico “ok boomer” veniva, e viene, usato come una separazione tra chi è aggiornato sull’ultima novità tecnologica o social(e) e chi no, alcuni di questi nuovi termini hanno modificato il proprio significato durante la permanenza nel web, evidenziando una natura camaleontica. Ne è un esempio la parola flex, dall’inglese to flex, mostrare i muscoli, la cui origine, secondo l’Oxford English Dictionary, deriverebbe dal latino flectere, e che oggi ha anche il significato di ostentare, in termini di fama, denaro o tipologia di vita. L’espressione triggerare – attivare, far scattare -, invece, è comparsa con l’avvento delle prime macchine di calcolo numerico. Secondo la descrizione che ne fa l’Accademia della Crusca nel suo sito, nella sezione dedicata alle parole nuove, la prima attestazione è datata 1976 all’interno degli atti di una conferenza sul calcolo automatico. Il suo uso, consolidatosi negli anni ’90 in ambito tecnico-scientifico e medico, è stato ripreso negli ultimi anni dal mondo web come nuovo significato “circa dal 2016 sull’onda della diffusione di un meme (una scenetta, imitazione di un fatto reale solitamente sarcastica ndr.) identificabile, appunto, con il nome di Triggered. Nei contesti social o dei forum l’espressione “triggerare qualcuno” assume un significato vicino all’arrabbiarsi o sclerare”.
“Non si tratta di parole sdoganate o segnalate per essere inserite nei dizionari, ma si tratta di parole su cui c’è una certa attenzione, perché entrate nella lingua comune a partire dai mezzi di comunicazione di massa, dalla rete e dai social”, spiega al Fatto.it il linguista Marco Biffi, professore associato dell’Università di Firenze, responsabile del sito web della Crusca. “In una realtà globale a forte prevalenza anglofona, i fattori che determinano la forte presenza di parole di origine inglese nel gergo giovanile mi paiono soprattutto due. Il primo è legato alla velocità di propagazione delle parole nella rete e alla loro “densità”: infatti non soltanto parole create da chiunque possono diffondersi in modo istantaneo e senza che possano essere metabolizzate dalla lingua, ma possono farlo anche con un’altissima frequenza d’uso. Il secondo elemento – continua Biffi – è che tra i giovani ormai l’uso dell’inglese è ritenuto più adeguato alla loro espressione. In un certo senso si tratta di una lingua di “prestigio” anche se nella fattispecie è piuttosto un marcatore generazionale: un ragazzo che dice “è imbarazzante” si sente più formale che se dice “è cringe”; o meglio si sente vecchio. Dire snitch è ritenuto più congruo (si dovrebbe dire più “figo” o addirittura più cool) che dire spione (così almeno sostiene mia figlia di 14 anni). Che poi è appunto legato a quello che in linguistica si chiama gergo, cioè parole che identificano l’appartenenza a un certo gruppo”.
C’è una regola che permette a queste parole di entrare ufficialmente nella lingua italiana? “Come diceva De Mauro l’italiano lo fanno i 55 milioni di italiani che lo parlano (oggi sono un po’ di più). In genere parole che nascono come parole gergali sono stagionali – afferma il linguista – Oggi fare previsioni è anche più difficile, perché così com’è facile, e veloce, l’ingresso, è altrettanto facile e veloce la fuoriuscita. Personalmente credo che molte di queste parole non rimarranno nella lingua italiana, perché sono spesso legate a fenomeni di costume, o anche a tecnologie, destinate a perdersi; e con esse si perderanno le parole che le descrivono – e spiega -. Pensiamo proprio a cringe: di parole per esprimere imbarazzo in italiano ce ne sono tantissime; quando cringe non sarà più cool sarà verosimilmente accantonato. Anche le stesse parole legate a una particolare tecnologia: taggare ha una grande importanza nella comunicazione social di oggi, ma tra due anni potremmo essere chiamati a fare cose completamente diverse, con un metodo diverso e chi sa quale sarà il nome che useremo”.
Gli ultimi dati Invalsi 2021 hanno certificato che il 44% degli studenti di quinta superiore non hanno un livello accettabile di italiano, nel 2019 erano il 35%. In un mondo ormai ipertestuale la capacità di saper interpretare un testo è fondamentale. “Di per sé questi non sono fenomeni che creano problemi. Nel panorama italiano attuale, però, potrebbero crearli, perché non è diffusa a livello capillare una profonda educazione linguistica – puntualizza Biffi –. Innanzi tutto ci vorrebbe una scuola che spiega bene una questione fondamentale come quella del corretto uso del registro da utilizzare, e che consolidi la consapevolezza che non soltanto c’è una differenza quando si parla e quando si scrive (e quando si scrive sui social), ma c’è anche una differenza legata al contesto e al destinatario”. La responsabilità, secondo il professore dell’Università di Firenze, è identificabile: “Negli ultimi anni c’è stata poca attenzione e poca cura per l’italiano da parte delle istituzioni (centrali e locali), che hanno puntato piuttosto sulla valorizzazione dell’inglese. La lingua non è solo uno strumento con cui comunichiamo, ma prima di tutto è lo strumento con cui pensiamo. E saper pensare autonomamente – conclude Biffi – è il presupposto per essere realmente liberi, senza essere sottoposti alla mediazione di nessuno”.