Doveva essere l’anno della rinascita, seppur tra innumerevoli difficoltà e con lo spettro di nuove violenze che avrebbero rigettato il Paese nel caos che lo ha caratterizzato negli ultimi dieci anni. Ma col rinvio delle elezioni originariamente in programma per il 24 dicembre scorso, aumenta ulteriormente l’incertezza per un futuro di pace e stabilità in Libia. Manca ancora una legge elettorale riconosciuta da tutte le parti, si devono stabilire criteri univoci per la valutazione delle candidature e resta l’incognita sul lavoro che il vincitore delle prossime Presidenziali dovrà svolgere per mettersi al tavolo con gli sconfitti e programmare una divisione dei poteri che eviti una spartizione territoriale e una nuova discesa in campo delle milizie. Alcuni di questi nodi, stando agli ultimi aggiornamenti, dovranno essere sciolti entro il 24 gennaio, nuova data indicata per la possibile chiamata alle urne. Un’ipotesi che, con le posizioni delle parti ancora cristallizzate, appare sempre più utopistica ogni giorno che passa.
Il voto democratico rimane la principale possibilità per arrivare a una prima svolta nel Paese, seppur con gli innegabili problemi che ne conseguiranno, a partire dal mantenimento della pace e della stabilità. Periodicamente si registrano nuovi, piccoli scontri tra milizie, in particolar modo nelle aree limitrofe alla capitale Tripoli, niente che, per il momento, possa provocare una nuova escalation. Ma nelle settimane, forse mesi, che separano il Paese dalle elezioni, tutto può ancora degenerare. “Le elezioni, se e quando ci saranno, rappresenteranno un possibile punto di svolta – spiega a Ilfattoquotidiano.it Matteo Colombo, Visiting Fellow dell’Ecfr e Associate Research Fellow dell’Ispi – perché un governo eletto potrà fare ciò che invece è impossibile per un governo di transizione come quello attuale. Ma serve un riconoscimento largo da parte della popolazione che, comunque, sembra esserci, visto che circa 2,8 milioni di persone si sono registrate per il voto su oltre 6 milioni di abitanti”.
Ciò che però preoccupa maggiormente non è il regolare svolgimento della giornata elettorale, ma le possibili reazioni delle fazioni più potenti, da quella che fa capo al generale Khalifa Haftar, fino alle milizie di Misurata, passando per i fedeli al figlio dell’ex Raìs, Saif al-Islam Gheddafi, in caso di sconfitta alle urne. “Il problema è proprio questo – continua Colombo – Chi perderà probabilmente contesterà il voto, ben conscio che, se deciderà di imbracciare nuovamente le armi, potrà farlo senza un vero esercito che potrà fermarli. E gli appigli ai quali aggrapparsi sono tanti. Ad oggi si voterebbe infatti senza un’uniformità nei criteri di valutazione delle candidature e una legge elettorale non condivisa. In vigore è ancora quella del 2014, che favorirebbe l’attuale premier Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh sostenuto dalla regione più popolosa del Paese, la Tripolitania. Le forze dell’est ne avevano proposta e approvata un’altra che, però, a ovest non è stata riconosciuta”. E proprio la figura di Dbeibeh, nettamente in vantaggio nei sondaggi rispetto agli sfidanti, potrebbe rappresentare un altro punto di scontro post-elettorale: l’attuale premier ad interim, secondo le leggi in vigore, non potrebbe candidarsi alla presidenza senza aver rassegnato le proprie dimissioni almeno tre mesi prima del voto. Cosa che non ha fatto, visto che ha ripreso subito il suo posto alla guida dell’esecutivo una volta ufficializzato il rinvio delle elezioni. Anche un improbabile trionfo di Haftar o Gheddafi creerebbe non pochi problemi di sicurezza, visto che diverse milizie, quelle di Misurata su tutte, non accetterebbero mai un governo guidato dall’acerrimo nemico della Cirenaica o dal figlio del dittatore che per prime hanno contribuito a destituire nel 2011.
Di sicuro c’è che chiunque prenda la guida del Paese dovrà sedersi a un tavolo con gli avversari e mettere immediatamente in campo un piano di redistribuzione del potere e delle ricchezze che scontenti nessuno. Un sistema di controllo simile a quello costruito negli anni proprio da Muammar Gheddafi che, oltre a godere di un esercito e di servizi di sicurezza potenti e presenti sul territorio, dietro alla figura dell’uomo forte nascondeva anche la capacità di tenere insieme le eterogenee anime del Paese contando sulle ricchezze generate dalla vendita delle materie prime. “La Libia non accetterà mai un nuovo uomo forte – sostiene Colombo – Anche per questo non riesco a vedere personaggi come Haftar o Saif al-Islam Gheddafi alla presidenza. Ma a livello di redistribuzione del potere e delle ricchezze il sistema Gheddafi è necessario, un sistema che renda sconveniente per gli avversari una ribellione perché avrebbero più da perdere che da guadagnare“.
A favorire una stabilizzazione in questo senso è anche il contesto internazionale. La Libia è stato terreno di lotta fra grandi potenze: quelle che sostenevano Haftar, Russia, Emirati, Egitto e anche Francia, e chi invece ha dato supporto all’ex Governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj riconosciuto dall’Onu, Turchia e Ue su tutti. Senza dimenticare la vicinanza tra il Qatar e le milizie di Misurata. “Oggi, però, l’Egitto parla con il Qatar e con la Turchia, cosa che fino a poco tempo fa non avveniva. Stessa cosa in Ue, dove due Paesi chiave come Italia e Francia sono tornati su posizioni condivise. Questo non esclude che si possa arrivare a nuovi scontri, ma ne limita le possibilità”. Evitare lo scontro, la scintilla che può innescare una nuova e inarrestabile violenza e che vanificherebbe tutto il lavoro svolto fino ad ora è infatti l’obiettivo da mettere al centro delle azioni di tutti gli attori in gioco: “Perché le potenze straniere generalmente non innescano guerre civili, ma contribuiscono ad aggravarle”.