di Alessandro Pezzini

La scuola è ripartita. Azzoppata, positiva, mascherata, a distanza, a rotelle. Ma è ripartita. Ci siamo salutati a fine dicembre dandoci appuntamento per questi giorni con una cautela vibrante. Non avevamo la certezza che ci saremmo rivisti così come ora non sappiamo quanto durerà. Ciò che sappiamo è che facciamo la cosa più importante al mondo e non ci possiamo fermare perché nel gruppo classe si impara, si resiste, si sogna, si cresce. E poi si vince.

In questo periodo ho assistito a Ministri, Governatori e Presidi farsi la guerra (più o meno, a seconda del territorio) in merito a presenza o distanza, a trasporti pubblici, a FFP2, a tamponi o vaccini. Non fraintendetemi: è tutto assolutamente corretto. Abbiamo capito che la durata di questa pandemia non si riduce alternando un all-in all’altro ma piuttosto individuando, tra molte variabili, la strategia adatta a ridurre il rischio di qualche punto percentuale utile a contenere una dose di rischi e, parallelamente, a lavorare, acquistare e più genericamente a vivere.

Quello che mi scoccia un po’ è che molto raramente ho sentito le autorità parlare di studenti; bambini, adolescenti o giovani che siano. Chi ha iniziato la scuola primaria nel 2020 non ha ancora vissuto le elementari come ce le ricordiamo. Non ha potuto scambiarsi i giochi, non ha potuto fare le linguacce a nessuno, non ha potuto svagarsi più di tanto e tutto il loro benessere è dipeso dalla creatività delle famiglie e del corpo docente, oltre alla resilienza del corpo non docente. Magari di collaboratori scolastici assunti a contratto Covid e che quasi – quasi – si augurano che lo stato di emergenza venga prorogato ancora un pochino per poter finire l’anno e non abbandonare i ragazzi con i quali sono riusciti ad instaurare un rapporto positivo. Ma vi ricordate quanto bene ci hanno donato i bidelli?

E così via tra chi non può incontrare chiunque gli piaccia, chi si è diplomato senza gli amici alle spalle a dare supporto e chi si è laureato in streaming senza dare un briciolo di festicciola. Vedendo quotidianamente tutto questo dall’interno, vi assicuro: è un dramma. Nello specifico, tra tutte le difficoltà, la regina è stata il cercare di trasformare il ghetto dei “disabili in presenza e tutti gli altri a casa” in una situazione intima e piacevole di apprendimento e sorrisi sotto le mascherine.

I nostri ragazzi sono quelli che in questi due anni hanno perso più di tutti, perché i loro buchi non riguardano esclusivamente il fatturato ma la socialità, l’esperienza, la crescita, la condivisione e, genericamente parlando, la vita.

Crescendo, forse, diamo per scontato il fatto che ciò che abbiamo vissuto in quegli anni ha contribuito enormemente a renderci ciò che siamo oggi. Sono gli anni più belli della vita – ci diciamo sempre – e milioni di ragazzi, della generazione che domani avrà in mano il mondo, non potrà mai saperlo. E stanno sopportando tutto questo senza fare casino.

Dobbiamo ammirarli nonostante il reselling, la trap, le chunky sneakers e le pettinature pessime. Dobbiamo iniziare a guardare alla scuola non più solo come un ambiente in cui insegnare qualcosa ma da cui, grazie ai ragazzi e alle ragazze che la vivono, possiamo imparare molto.

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