Cori da stadio, tensioni, proteste, una rissa, un principio di infarto: è il bilancio della sessione inaugurale del Parlamento iracheno, riunitosi ieri per la prima volta dalle elezioni dello scorso ottobre che ne hanno nettamente mutato la composizione. Una sessione movimentata, allegoria della confusa conflittualità che regna oggi nell’arena politica locale e della quale ha fatto le spese nell’immediato l’attuale speaker ad interim dell’Assemblea, Mahmoud Al Mashhadani, 74 anni, portato in ospedale.

Le nuove forze politiche emerse dalle elezioni dovranno eleggere un nuovo speaker – che secondo consuetudine deve essere esponente della minoranza sunnita – e di lì, entro 30 giorni, un nuovo presidente della Repubblica che invece da prassi è di etnia curda. A quel punto il neo capo di Stato ha quindici giorni per selezionare il nuovo capo del governo – tradizionalmente un musulmano sciita -, di solito dal blocco parlamentare più numeroso.

È stato il giorno dell’ingresso nel Majles di nuove forze parlamentari, espressioni del movimento di protesta contro l’establishment denominato Tishreen (Ottobre), come il partito Imtidad (Estensione). Fondato da Alaa al Rikabi, Imtidad ha ottenuto 9 seggi sui 329 complessivi, vedendo i suoi rappresentanti sedersi nella stessa aula dei politici che da essi erano stati duramente contestati negli ultimi due anni.

Ad esser presi di mira erano stati in particolare i movimenti politico-militari filo iraniani – responsabili di una parte della repressione delle stesse proteste – che non a caso nell’ultima tornata elettorale hanno perso due terzi dei loro seggi. Un risultato che, nonostante l’evocazione di frodi elettorali da parte dello stesso blocco, è stato confermato dalla Corte suprema e che vede quindi Fatah – guidato da Hadi al Amiri – fortemente ridimensionata, con appena 17 seggi. La coalizione allargata nella “Struttura di Coordinamento sciita”, che comprende Asaib ahl al Haq di Qais Al Khazali, Ataa, partito collegato alle Milizie di Mobilitazione popolare, guidato da Falih al Fayyadh, e il partito dell’ex premier Nuri Al Maliki, non dovrebbe arrivare a 60 seggi.

Se la coalizione di forze sciite apertamente filo iraniane è la grande sconfitta, il raggruppamento guidato da Moqtada Al Sadr è senza dubbio il vincitore, nonché titolare del fronte più consistente in assoluto, avendo ottenuto 74 seggi. È quindi proprio il chierico, politico ed ex leader militare sciita, figlio e nipote di due tra i più importanti ayatollah della regione, il vero potenziale arbitro del futuro esecutivo iracheno. Ma non necessariamente il suo capo: perché in Iraq, oggi, capire chi guiderà il governo non è meno importante che capire chi starà all’opposizione.

In modo non troppo dissimile dal Libano, anche in Iraq vige una sorta di “consociativismo confessionale” in base al quale quote di potere sono ripartite su linee etno-confessionali. Un sistema concepito per smorzare le tensioni inter-settarie, garantendo equa rappresentanza, ma che spesso ha prodotto immobilismo, instabilità e soprattutto corruzione. Se in Libano si parla di Taifi’ya, in Iraq il sistema di quote settarie è la Muhassasa, ed entrambi sono stati duramente contestati durante le proteste iniziate a ottobre 2019 in ambedue i Paesi.

Sin dalla caduta di Saddam Hussein, che aveva determinato anche il ribilanciamento demografico a favore della componente sciita, le forze politiche irachene hanno ulteriormente sublimato questa parcellizzazione, finendo per dividersi anche i ministeri a seconda dei seggi ottenuti in parlamento.

Così, in Iraq si sono succeduti governi teoricamente di “larghe intese”, di “unità nazionale”. All’atto pratico, esecutivi orfani di qualunque forma di opposizione reale incaricata di monitorare l’operato del governo – poiché quasi tutti vi avevano una quota di partecipazione – ed una conseguente conservazione, da parte dei politici locali, di inattaccabili rendite di posizione. Un sistema perverso, nel quale le forze politiche partecipano allo stesso gabinetto e allo stesso tempo competono l’una contro l’altra sul piano della propaganda e della rappresentanza intra-confessionale, in una campagna elettorale permanente, seppur a bassa intensità.

La comparsa dello Stato Islamico nel 2014 ha poi visto l’ascesa dei gruppi paramilitari filo iraniani, protagonisti nella sconfitta degli uomini di al-Baghdadi, e da quel momento in condizione di reclamare o anche imporre quote crescenti di potere, strettamente collegabile all’influenza di Teheran in Iraq, uno dei principali elementi di malcontento popolare negli ultimi mesi. Un aspetto che Moqtada al Sadr ha colto da tempo, allontanandosi in modo netto e allo stesso tempo cauto dalla Repubblica Islamica, della quale è stato a lungo solido alleato, e ponendosi alla testa del principale blocco parlamentare, dalla postura marcatamente anti-settaria.

Forse anche per questo la possibilità di dare vita a un altro governo allargato ad “instabilità programmata” sembra essere minore: secondo quanto rivelato da Middle East Eye, la scorsa settimana Moqtada al Sadr avrebbe incontrato congiuntamente i leader dei principali gruppi iraniani, tra i quali non corre sempre buon sangue. In particolare tra Hadi al Amiri – il più pragmatico, nonché il più longevo tra gli alleati dell’Iran – e Qais Al Khazali, irrequieto leader dell’Asa’ib ahl al Haq.

Secondo fonti a lui vicine, Moqtada al Sadr è in pieno “divide et impera” intra-sciita: un tentativo di sfaldare definitivamente il blocco filo iraniano, offrendo a ciascuno dei suoi leader delle opzioni per entrare in una nuova maggioranza di governo, abbandonando il proprio fronte filo iraniano. Un tentativo che è peraltro speculare a quello degli stessi leader filo iraniani, che non hanno perso del tutto le speranze di ricondurre lo stesso Al Sadr sotto il loro ombrello.

C’è però anche l’opzione controintuitiva, che potrebbe essere percorsa proprio alla luce di quanto detto sul sistema politico iracheno. Moqtada al Sadr, pur guidando il blocco più numeroso, potrebbe scegliere di andare nuovamente all’opposizione, assicurandosi il ruolo di ineludibile ago della bilancia (in grado di bloccare l’attività di governo a piacimento) e costringendo altri attori – già sotto il mirino della società civile – a governare un Paese senza averne realmente il controllo.

“Sadr sta cercando di smantellare la struttura di coordinamento sciita, proprio mentre quest’ultimo cerca di riportarlo sotto la propria ala. Le forze sciite filo iraniane temono la possibilità che Moqtada al Sadr formi un governo senza di loro, ma allo stesso tempo temono che si ponga a capo dell’opposizione”, ha commentato un leader politico sciita. “Sadr all’opposizione significa che il prossimo governo sarà in ogni caso instabile, e potrebbe cadere nei primi mesi”. A completare un quadro enigmatico, ci sono tre silenzi inattesi: quello degli Stati Uniti e dell’Iran, cioè i due paesi con maggiore influenza sull’Iraq, e quello del più importante ayatollah del Paese, Ali Al Sistani. Segno che, per ora, la partita può rimanere in Parlamento.

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