Esplora la vita di un padre anche America Latina. Ma il dentista benestante e compassato di Elio Germano ha due figlie, una moglie, e una ragazzina nascosta in cantina a sua insaputa. Sul loro terzo lungometraggio Damiano e Fabio D’Innocenzo continuano a scrivere il nostro tempo d’inquietudini, fascinazione e debolezze con la penna del loro cinema. Il protagonista ha una vita lucida e routinaria quanto la sua mente è in preda al mistero. Qui la superficiale apparenza viene scavata sfacciatamente come davanti a uno specchio, del quale la piscina ad artiglio della strana villa scelta come location sembra un pericoloso vetro rotto.
I registi si ispirano ai dipinti di Edward Hopper e Alex Colville, e questa nuova storia di periferia opulenta lontana dall’abbastanza potremmo definirla una nuova favolaccia, in quanto il suo protagonista avrebbe trovato l’America a Latina. Questa la placida provincia dell’ambientazione. Ma se Favolacce era il film della luce, questo America Latina è il film della penombra, del crepuscolo. Fondamentale la caratterizzazione di Massimo Wertmüller, nella sua scena con Germano si specchiano due paternità perdenti, mentre le musiche dei Verdena sembrano raschiare i fondi più reconditi di ogni paura.
Eleganti e intimamente feroci, i D’Innocenzo ci portano in sala il loro Io non ho paura, ma non fatevi ingannare da una villa ordinata, crostate polpose e moglie e figlie di eterea innocenza, perché la paura sfiora lo spettatore dove la follia viene rappresentata con immagini in negativo acido e acrilico.