Ci sono sì le 11 vittorie in Coppa del Mondo (22 podi totali) e le tre medaglie iridate. Ma nel libro sulla vita sportiva di Giorgio Rocca ci sono soprattutto gli insuccessi, le crisi e gli infortuni. Perché per arrivare sul tetto del mondo, bisogna passare attraverso i fallimenti. Ecco l'intervista
C’è stato un momento – era il 12 dicembre del 2005 – che era in uno stato di grazia così incontenibile che a Madonna di Campiglio, sulla 3-Tre, tra la prima e la seconda manche chiese allo speaker di urlare più forte i tempi parziali per sentirli. Nonostante il boato del pubblico, assiepato lungo la pista, nonostante la concentrazione che di solito annulla ogni rumore. “Al primo intermedio distinsi la sua voce scandire il mio tempo. Elettrizzato, inserii il turbo e recuperai lo svantaggio”. Alla fine vinse, lasciandosi alle spalle fuoriclasse del calibro di Benjamin Raich e Kalle Palander. Era la terza vittoria consecutiva per Giorgio Rocca in quel magico inverno. Sarebbe arrivato a cinque prima delle Olimpiadi di Torino. Prima della caduta. Quando il più forte di tutti, che portava sulle spalle la pressione di un Paese intero, spigolò a metà gara. La storia sportiva del livignasco – oggi 46 anni, tre figli e 70 maestri di sci da gestire, sparsi nelle tre sedi della sua Giorgio Rocca Ski Academy, tra Sankt Moritz, Crans Montana e Livigno – è finita nel bel racconto, edito da Hoepli, Slalom – Vittorie e sconfitte tra le curve della mia vita, scritto con Thomas Ruberto. Una storia costellata di sconfitte, fallimenti, crisi – tanto che la Coppa del mondo di slalom, che si aggiudicherà proprio nel 2006, è “intarsiata delle ferite della mia vita” – che prima del campione restituiscono la fragilità di uomo. E il sacrificio di uno sportivo, mai domo, che all’apice della sua notorietà, quando sciatori e appassionati entravano nei rifugi e chiedevano di poter accendere la tv per vederlo in gara, e quando i commentatori sportivi insistevano a paragonarlo ad Alberto Tomba, riconoscerà: “Ero un eroe semplice, non un fenomeno. Non ero il nuovo Tomba. Ero Giorgio Rocca, semplicemente“.
Il suo libro è pieno di fatiche, di insuccessi, descritti anche in modo ironico, di periodi più o meno lunghi in cui racconta di essersi perso, di numerosi infortuni. Quanto è stato importante per lei fallire?
La sconfitte ricoprono la maggior parte della carriera di uno sportivo, anche del più vincente. Mi hanno sempre fatto riflettere, perché il campione è quello che è in grado di analizzarle, e superarle. Questa consapevolezza cerco di trasmetterla anche oggi.
Ci spieghi.
Purtroppo, troppo spesso, oggi si pensa che dietro il successo non ci siano grandi fatiche. Non è così. Quello che spiego ai miei ragazzi è che il successo, qualunque sia l’obiettivo che ci si è posti, non arriva solo grazie all’allenamento, ma se si è capaci di sopportare le sconfitte. Nel mondo dello sci, e nello sport in generale, ci vogliono allenatori-psicologi, o mental coach. Ai giovani, ma anche ai genitori che pensano di tirar su dal niente dei nuovi Alberto Tomba, bisogna spiegare che solo pochi riescono. E che la maggior parte fallisce.
A proposito di genitori, nel libro descrive un rapporto splendido con suo padre e sua madre. L’hanno sempre supportata, anche nei momenti di crisi.
Mi hanno permesso di diventare quello che sono, facendo grandissimi sacrifici, anche economici, perché lo sci costa moltissimo. Quando sbagliavo, avevano sempre una parola di conforto. Quando vinsi la mia prima gara di Coppa del Mondo (a Wengen, il 13 gennaio del 2003, ndr) mi dissero che potevo raggiungere la sala congressi per la conferenza stampa, dopo la gara, in elicottero. Lì era la tradizione, spettava solo al vincitore. Decisi di far salire sull’elicottero mio padre.
Riesce anche lei a essere una presenza discreta, dal punto di vista sportivo, coi suoi figli?
Faccio il possibile, certo. Le faccio un esempio recente. Mio figlio Francesco, che ora ha 13 anni, ha deciso che vuole prendere, in modo serio, la strada dello sci. L’ho messo di fronte alla realtà, cioè che sarà un percorso faticoso e che sarà difficilissimo emergere. E gli ho detto: “Pensaci bene, perché il papà deve mettere in conto di spendere una cifra consistente in più all’anno”. Con lui non pretendo che vinca, facciamo l’analisi della gara e ci assicuriamo che abbia fatto il massimo. L’importante è quello. I genitori che non sanno cosa significhi mettere i bastoncini fuori dal cancelletto di partenza e che pretendono di avere in casa dei campioni sbagliano di grosso. Dovrebbero essere sempre contenti dei loro figli.
Il rapporto con Alberto Tomba, vicino o distante che fosse, è presente dall’inizio alla fine del libro. Da quando era il suo idolo, e lo vedeva in tv, a quando le dava i consigli tra una manche e l’altra. Quanto l’hanno condizionata i continui paragoni con lui fatti da giornalisti e commentatori?
Era un paragone stupido. Caratterialmente eravamo agli antipodi. Io sono molto più timido e meno estroverso. In più ho iniziato a vincere a 28 anni. Solo per questa ragione, era impossibile vincere quanto aveva fatto lui. Era il mio idolo, una leggenda, mi ha trasmesso la passione per lo sci. Quando l’ho conosciuto è diventato più umano, con le insicurezze che abbiamo tutti. Ma nel contesto di gara era un genio, mentalmente superiore a tutti.
La delusione dopo le Olimpiadi di Torino viene appena accennata nel libro. Che cosa ha provato dopo la caduta?
Stavo vivendo il momento migliore della mia carriera. Venivo da cinque vittorie in sette gare e tutti si aspettavano che potessi trionfare. Non le posso raccontare quello che provai, l’enorme delusione. Le basti sapere che ancora oggi sono consapevole che se fossi arrivato al traguardo sarei salito sul podio. E non lo dico con presunzione. Sarebbe andata così, razionalmente.
Prima dell’invasione dell’Iraq lei scese in pista con una scritta pacifista, indossò una maglietta per Giuliana Sgrena due anni dopo. Qualcuno la definì il “carabiniere di sinistra”. Come andò?
Ho sempre pensato che uno sportivo di successo, un personaggio pubblico, debba prendere posizione. Però non ho mai espresso una preferenza politica, e credo non ce ne sia bisogno. Penso che sia giusto dare voce a chi sta peggio di noi. Io mi sono impegnato nel sociale, ho partecipato a raccolte fondi e sono stato vicino a Gino Strada e a Emergency. Li ho conosciuti, ho visto come lavoravano e con loro abbiamo fatto grandi progetti.
Gli sciatori toccano con mano gli effetti del riscaldamento globale. I ghiacciai si ritirano, le stazioni sci spesso lottano con temperature sopra la media. È un problema?
La montagna sta soffrendo, è evidente, e continuerà a soffrire. Seppur in piccolo, è giusto che ciascuno faccia il suo. Le persone si devono impegnare per avere una montagna più sana e più pulita e anche per viverla in maniera diversa rispetto al passato. Per fortuna, aggiungo, i nostri figli hanno una mentalità più ecologista.
C’è un nuovo Giorgio Rocca in Italia?
Se guardiamo alla mia disciplina, lo slalom, c’è Alex Vinatzer. Gli manca ancora un po’ di maturità, ma è giovane. Ha grandi abilità e sicuramente può ambire a diventare un nuovo Rocca.
Tra meno di un mese ci saranno le Olimpiadi a Pechino. Come vede la spedizione azzurra dello sci alpino?
Abbiamo moltissime carte da giocare, sopratutto tra le donne. In gigante possono puntare al podio Federica Brignone e Marta Bassino. Sofia Goggia nelle discipline veloci può fare la voce grossa.
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