Dopo giorni di scontri, decine di manifestanti uccisi e almeno 8mila arresti, la calma sembra essere tornata in Kazakistan. Una calma legata alla pesante repressione che il regime ha messo in campo, supportato anche dalle truppe della Csto, organizzazione di sicurezza a guida russa. Col succedersi degli eventi e delle dichiarazioni sta diventando sempre più evidente che, oltre a un movimento di piazza genuino e mobilitatosi per chiedere maggiore democrazia e uguaglianza economica, in Kazakistan era in corso sotto traccia una guerra di potere tra diverse élite politiche.
La prima, coalizzatasi attorno alla figura dell’attuale presidente Kassym-Jomart Tokayev, salito al potere nel 2019 dopo le dimissioni a sorpresa di Nursultan Nazarbayev, “padre fondatore” del Paese mai veramente uscito di scena. La seconda, ancora fedele a quest’ultimo che, fino a pochi giorni fa, aveva mantenuto anche l’influente ruolo di capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale. Al di là dei retroscena e delle dietrologie di varia natura, alcuni elementi concreti fanno capire quanto profonda sia stata la spaccatura, primo fra tutti la rimozione e l’arresto del capo del Comitato di Sicurezza Nazionale, Karim Massimov: uno dei massimi esponenti politici del gruppo vicino a Nazarbayev che agiva da anello di congiunzione tra l’era ufficialmente chiusasi in Kazakistan nel 2019 con il passo di fianco di Elbasy (Leader della Nazione, titolo onorifico di Nazarbayev) e quella successiva del delfino Tokayev. Un altro fattore è proprio l’intervento della Csto: i soli 2mila soldati circa giunti in Kazakistan fanno pensare che il ruolo sia stato più quello di protezione di Tokayev – che ne ha invocato il dispiegamento – che non di repressione della piazza. Un compito, quest’ultimo, che le forze kazache avrebbero potuto compiere senza alcuna difficoltà e in autonomia.
Nelle ultime ore Tokayev ha rilasciato dichiarazioni sempre più al vetriolo nei confronti dell’eredità del suo mentore politico caduto (almeno apparentemente) in disgrazia. Durante un discorso pubblico, il capo dello Stato kazaco ha promesso cambiamenti radicali nella gestione del Paese e, pur non menzionando direttamente Nazarbayev, ha sottolineato che i disordini di inizio gennaio sono stati legati anche a una cattiva gestione della sfera economica. Tokayev ha anche auspicato la creazione di un fondo sociale pubblico, da alimentare con soldi provenienti da società pubbliche e private e grandi oligarchi, per affrontare i numerosi problemi strutturali che ancora affliggono il Paese. In un passaggio, il leader kazaco ha affermato che parte di questi fondi dovrebbero provenire da tutta quella “classe di individui estremamente ricchi anche secondo gli standard internazionali” apparsa durante l’era Nazarbayev.
Sicuramente utile per una stoccata contro il predecessore, l’annuncio di Tokayev relativo alla nascita del fondo sociale lo sarà probabilmente meno per portare a un reale cambiamento nella gestione economica del Kazakistan. Nazarbayev aveva lanciato un piano chiamato “Kazakhstan 2050 Strategy” per fare della Repubblica centro asiatica una delle prime 30 economie del mondo entro la metà del secolo. Basato sul coinvolgimento di tecnocrati e figure pubbliche di spicco – come Tony Blair – il piano ha inizialmente portato a risultati positivi in termini di crescita economica, ma presto sono apparsi tutti i suoi limiti in termini di riduzione delle disuguaglianze economiche e geografiche, accrescimento della mobilità sociale, lotta alla corruzione e diversificazione economica. Soprattutto quest’ultimo è forse il tema centrale che Tokayev dovrà affrontare. Il Kazakistan, con una produzione giornaliera di circa 1,8 milioni di barili di petrolio al giorno nel 2020, è fortemente dipendente a livello economico dall’esportazione di idrocarburi. Sempre nel 2020, il peso di questa attività sul totale del Pil del paese è stato pari al 20%, secondo quanto riportato dalla Banca Mondiale. Dato che senza dubbio si alza sensibilmente considerando le altre risorse naturali esportate dal Kazakistan: il Paese ha infatti le seconde riserve al mondo di uranio ed è il primo a livello globale in quanto a produzione di questo metallo (più della metà della quale viene esportata in Cina), mentre occupa la decima posizione planetaria per estrazione di carbone.
Nonostante questo sbilanciamento, la Banca Mondiale (prima della crisi) aveva previsto una crescita economica del 3,7% per il 2022 e del 4,8% nel 2023. Ma d’altro canto l’organismo da sempre rimarca la necessità che il Paese aumenti la propria competitività, limitando il ruolo delle imprese statali e diversificando l’economia. Il problema è come. L’allontanamento, anche solo simbolico, di Tokayev da Nazarbayev – la cui famiglia ha sempre avuto un fortissimo controllo sulla sfera economica kazaca – è sicuramente un primo passo. Difficile che, almeno nel breve periodo, nonostante gli annunci roboanti riesca a compierne altri di un certo peso specifico. Anche considerando che, visto l’aiuto offerto da Vladimir Putin nel mantenimento del potere da parte di Tokayev, è probabile che Nur-Sultan sia forzata ad abbandonare la sua ritrosia a una più approfondita integrazione all’interno dell’Unione Economica Eurasiatica, spazio economico comune formato nel 2014 con Russia, Bielorussia, Armenia e Kirghizistan.
I grattacapi energetici generati negli scorsi mesi dall’atteggiamento inizialmente conciliante delle autorità kazache nei confronti del mining di criptovalute – esploso nel Paese dopo il divieto di questa attività da parte della Cina – sono una dimostrazione plastica della difficoltà della leadership kazaca di essere lungimirante sul fronte economico. Parlando di Cina, nemmeno i copiosi investimenti giunti dalla Repubblica Popolare sono stati senza problemi, generando proteste e dubbi circa la reale influenza di cui gode Pechino rispetto alle decisioni prese dall’élite kazaca. Il campo, nonostante il repulisti interno in corso d’opera, è quindi minato per Tokayev.