di Lorenzo Morri*

Fin dall’inizio Sars-cov-2 è stato narrato con la retorica delle passioni estreme. Dalle conferenze-stampa ministeriali sono uscite subito notizie di “battaglie”, “prime linee”, “fronti”, “campagne”, accanto al conteggio giornaliero delle perdite. Netta è stata quindi la percezione di trovarsi davanti a un nemico, invisibile sì, ma dotato di un’identità chiara, tale da dissipare ogni incertezza di schieramento.

Dal momento in cui l’arma del vaccino è stata disponibile, si è potuto ritenere che la vittoria fosse a portata di mano. Con la vaccinazione di massa si è creato uno scudo per la popolazione fragile e, in nome di questa causa, persino i più giovani e sani sono stati chiamati in trincea a dare il loro contributo. Tuttavia sul terreno del contagio la guerra non è stata vinta.

Dopo una ritirata strategica estiva, il virus ha riorganizzato le truppe, assunto una fisionomia parzialmente nuova e ripreso l’avanzata. Così ha cominciato a manifestarsi un tipico riflesso psicologico: se la vittoria non giunge abbastanza rapidamente, ci deve essere qualcuno che, da dietro le linee, la sta sabotando. La teoria della “pugnalata alla schiena” spiega in modo semplice ciò che è complesso: è il dispositivo antropologico di ogni società arcaica, ma anche di una società moderna che inaspettatamente esperisca il terrore dell’ignoto e dell’impotenza.

In Italia si contano circa 6 milioni di sabotatori, ‘oggettivamente’ colpevoli perché hanno disertato rifiutando di imbracciare l’arma del vaccino. Anzi, al nemico virale aprono le porte di casa, permettendo di rifocillarsi. La loro diserzione indigna. Chi si sottrae alla difesa della patria comune disconosce il valore della solidarietà. In tal senso non appartiene più alla patria. È qui in azione la logica della guerra civile: il mio concittadino è diventato uno straniero, sia bandito. Ma poiché questa è la guerra contro un microorganismo globale, dove esiliare i traditori? Essi si sono resi stranieri all’intero genere umano. Sono alieni.

Il fenomeno della disumanizzazione del nemico in guerra è ampiamente noto. Ecco quindi che le persone non vaccinate
1) non hanno un nome, ma è una sigla a identificarle: “no-vax”;
2) nelle riprese delle loro manifestazioni compaiono in piccola folla anonima;
3) sui media non hanno volto, se non nei casi in cui l’estremismo del comportamento, o viceversa il pentimento e l’abiura, frutto del transito espiatorio in terapia intensiva, servano a metterne in luce l’instabilità mentale di prima e la recuperata salute di adesso;
4) nei discorsi di strada (e di rete) si dice che non andrebbero curati, ma lasciati morire, e si arriva a paragonarli ad animali, per esempio a “topi”.

Le armi ausiliarie della lotta al virus, “green pass” e “green pass rafforzato”, stanno dando corpo sul piano giuridico alle conseguenze morali dello schema della guerra civile. Così come il “lockdown dei no-vax” prefigura un sistema differenziato di diritti basato sulla categorizzazione. Se è esagerato sostenere che ciò riproduca le discriminazioni di ottanta-novant’anni fa, c’è qualcosa di allarmante nella naturalezza con cui ci si riferisce alle persone non vaccinate come a un’entità – asociale, incivile, parassitaria, incurabile – per la quale invocare la reclusione. Posta sotto stress, la democrazia sta sbandando.

Nell’Europa moderna la guerra civile si è manifestata innanzitutto come guerra civile di religione. Le categorie di Verità, Giustizia, Fede, Dio e diavolo sembrano utili a interpretare anche il presente. Alcune delle persone non vaccinate si riuniscono in gruppi dove l’opposizione all’obbligo diventa ragione di vita, secondo una radicalità che richiama aspetti classici del settarismo e del martirio. Per loro, le politiche vaccinali mondiali sono manifestazioni demoniache dettate dall’avidità delle multinazionali farmaceutiche, da cui difendersi nella purezza ideale della piccola comunità in lotta.

Dileggiate dalla stampa e messe al bando, oggi tali persone hanno trovato nel governo un avversario che, seppur dall’altro lato della barricata, parla il loro stesso linguaggio. Il governo, infatti, ha assunto le sembianze di una Chiesa di Stato, di cui la Tecno-Scienza (dotata di una sola voce) è il nuovo sacerdote e il vaccino è il dogma, negando la sacralità del quale si viene scomunicati. Le persone che rifiutano il dogma si sentono perciò legittimate a separarsi e a costituirsi in congreghe non-conformiste, dove costruire strategie di esistenza nascosta.

Sul lavoro, presentano certificati di malattia attraverso medici compiacenti, prendono “aspettative” più o meno veritiere, o scelgono di testimoniare andando incontro alla sospensione. Quanto alla scuola, ritirano i figli e provvedono con l’istruzione parentale, magari organizzando classi familiari clandestine. Taluni emigrano verso lidi più tolleranti. Qualcuno progetta atti intimidatori contro il nemico, in quella che è la pantomima della lotta armata nell’epoca di Internet e Telegram.

Esiste uno spazio per chi voglia restare fuori della logica della guerra?
In guerra non c’è tempo per il dubbio, perché il morale dei soldati ne sarebbe minato, né per l’esercizio della critica, perché la risolutezza dell’azione ne uscirebbe indebolita. In guerra occorre posizionarsi e muoversi in fretta. Si è esposti, dunque, all’annullamento di ciò che ci qualifica in essenza come esseri umani: l’attitudine a pensare, a porsi e a porre domande, a mettersi nei panni altrui, a comprendere le ragioni degli altri.

Esiste uno spazio in cui situarsi per proteggersi da questo pericolo? Voglio credere di sì. Grava su ciascuno il compito di cercarlo, lavorando affinché diventi di giorno in giorno più vasto ed abitato.

*docente, membro del ‘Presidio primaverile per una Scuola a scuola’

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