Giovanni Sebastiani (Cnr) e Patrizio Pezzotti (Iss) a ilfattoquotidiano.it elencano i problemi che ci sarebbero a cancellare ora l'aggiornamento su casi e ricoveri: "Il pericolo è quello di non avere una visione complessiva degli ospedali". Tra le proposte: comunicare giornalmente non i positivi, ma la percentuale di positivi tra i nuovi soggetti testati tramite molecolare
Più dati, meno dati, quali dati? In Italia come nel resto d’Europa ci si interroga sulle prossime strategie anti Covid. Perché se da un lato la quarta è l’ondata dei record quotidiani per numero di casi registrati nelle ventiquattro ore, l’ampiezza della popolazione vaccinata sulla quale impatta e la possibile, minore virulenza della variante Omicron consentono, se pure con cautela, di guardare oltre l’emergenza. Al centro anche la questione del monitoraggio della situazione pandemica e della raccolta dei dati, rilanciata dalla decisione della Lombardia di non contare tra le ospedalizzazioni per Covid i pazienti ricoverati per altra patologia e risultati positivi al virus Sars-CoV-2. Fuga in avanti? Di poco, perché sulla questione è al lavoro il ministero della Salute ed è imminente il parere del CTS, che più in generale potrebbe esprimersi anche sull’opportunità di continuare a fotografare la situazione attraverso la rassegna di dati che da ormai due anni ascoltiamo quotidianamente. Primo tra tutti, l’aggiornamento giornaliero sul totale dei casi, che secondo l’infettivologo Matteo Bassetti “è utile solo a creare ansia nelle persone”, e che il sottosegretario alla Salute Andrea Costa suggerisce di dilazionare in favore dei dati che fotografano la pressione sul sistema sanitario. “Non si devono togliere dati, ma piuttosto si devono fornire disaggregati e quindi più informativi”, suggerisce Giovanni Sebastiani, matematico dell’Istituto per le applicazioni del Calcolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che per il nostro paese segnala da marzo 2020 un problema di accesso ai dati per i ricercatori e ricorda che dall’inizio dell’epidemia, l’unico studio statistico a campione è quello di Istat e ministero della Salute nel luglio 2020. Quanto all’opportunità di concentrarci sulla rilevazione dei casi gravi o comunque sintomatici, bisogna tenere conto dei rischi. “Per Omicron non abbiamo certezza che l’asintomaticità a livello respiratorio corrisponda a un’assenza generale di sintomi”, sottolinea il direttore del Reparto di Epidemiologia, Modelli matematici e Biostatistica dell’Istituto Superiore di Sanità, Patrizio Pezzotti. Che avverte: “Attenzione a non contare tra i positivi le ospedalizzazioni non dovute al Covid, perché rinunciamo alla visione complessiva del fenomeno all’interno delle strutture ospedaliere e potremmo scoprire di avere un problema quando ormai è troppo tardi”.
Il tema è delicato e non è solo questione di informare l’opinione pubblica. Il modo in cui utilizziamo i dati relativi a positivi, test, ricoveri e decessi è fondamentale per definire le strategie di contrasto alla pandemia, presenti e future. “Comunque sia, un soggetto ospedalizzato e positivo al Covid può contagiare e non può essere equiparato a un paziente negativo”, è il commento del matematico Sebastiani alla scelta della Lombardia.
Una richiesta, questa delle Regioni, che avviene mentre si è in vista del possibile passaggio alla zona arancione, che alla luce dei dati recenti e in particolare di quelli sui decessi, potrebbe riguardare già alcune regioni, Piemonte e Calabria in testa. Decisioni politiche che sembrano rispondere più all’esigenza di evitare possibili restrizioni. E che meno hanno a che fare con quello che i numeri dicono, o meglio che potrebbero dirci. “Perché è vero che alcuni dati sono poco utili, come l’aggiornamento del totale dei positivi del quale possiamo fare a meno”, spiega Sebastiani. Che chiarisce: “Non si tratta però di ridurre i dati o la loro frequenza, per primi i ‘dati grezzi’ per la comunità scientifica, ma semmai di fornirne di utili e in modo più disaggregato, così da renderli più ricchi di informazioni, e di comunicarli bene”.
A partire, separatamente per test molecolari e rapidi, dal numero di nuovi soggetti testati e dalla quantità di positivi presenti tra loro, magari distinguendo sintomatici e non. Inoltre è bene comunicare giornalmente non i positivi, ma la percentuale di infetti tra i nuovi soggetti testati tramite molecolare. Un approccio, questo sì, che potrebbe sostituire utilmente quello che definisce “il giornaliero ballo dei contagi”. E ancora, sulle ospedalizzazioni, chiede di non limitarci al totale presente in reparti normali e terapie intensive: “Meglio sapere nel quotidiano quanti sono i nuovi ricoveri da una parte e dall’altra. Inserendo poi anche la capienza dei reparti, si saprebbe ad esempio che dal 5 al 26 dicembre 2021 la Lombardia ha decongestionato quelli ordinari aggiungendo quasi 4mila posti. Ma cinque giorni dopo la regione viene dichiarata zona gialla con il 18% di occupazione, e già il 12 gennaio si sale al 32% di ospedalizzazioni ordinarie, senza che questo induca a un ulteriore ripensamento della capienza”.
Più dati, dunque, ma soprattutto più indicativi dell’evoluzione del contagio e della reale pressione sulle strutture della sanità pubblica. Ma tra il dire e il fare, secondo lo scienziato del Cnr, c’è anche “una notevole debolezza sul fronte delle scienze quantitative, dalla matematica alla fisica, dalla biochimica all’economia. E questo vale sia per il governo che per lo stesso Cts, dove mancano esperti in materia. La pandemia è un fenomeno complesso ed è bene adottare un approccio multidisciplinare”. Un’assenza che per Sebastiani causa i problemi di accesso ai dati per chi è in grado di incrociarli e analizzarli. “Anche sul fronte dei decessi, per esempio, sarebbe possibile dettagliare le morti causate dal virus e quelle dovute ad altre patologie. Ma servirebbero più informazioni, come ad esempio età, genere, titolo di studio, numero di comorbidità, tempo tra positività e decesso, mentre già a livello provinciale quello sulle morti è un dato che non viene fornito”, aggiunge. Quanto all’opinione pubblica, spiega che l’informazione non deve essere ridondante, ma proprio grazie al lavoro sui dati disaggregati sarebbe possibile fornire dei trend, settimanali e mensili, mostrare curve, fornire delle mappe che aiutano a comprendere come si evolve la situazione.
E se può dirci dove stiamo andando, la raccolta dei dati ci dice innanzitutto dove siamo. Che il monitoraggio dell’epidemia debba cambiare man mano che la situazione evolve verso una fase endemica non è un mistero, ma patrimonio dell’epidemiologia classica. È la premessa del direttore del Reparto di Epidemiologia dell’Iss Pezzotti, che precisa: “Non abbiamo mai letto i dati sul singolo giorno, perché il dato quotidiano è soggetto a fluttuazioni dovute anche a fenomeni di accumulo temporale dei dati stessi”. E con tutte le dovute cautele, legate innanzitutto alla possibilità di nuove, future varianti, spiega che “se tutto va bene, andiamo verso una fase dove probabilmente dovremo raccogliere i dati che colpiscono il sistema sanitario”. È l’orizzonte di tutti i paesi in Europa: arrivare a fare quello che si fa tutti gli anni con l’influenza. “Utilizzando un sistema a campione coordinato dal ministero attraverso le regioni, con medici sentinella che settimanalmente compilano cartelle in cui si segnalano i casi di infezioni respiratorie virali. Questo speriamo che succeda, quando entreremo nella fase di convivenza con il virus”.
Intanto però sono i giorni di Omicron e dei record di nuovi contagi, mai così alti dall’inizio della pandemia. Tanto da rendere difficile anche la raccolta di alcuni dati, come quello sull’asintomaticità dei positivi. “Numeri troppo alti per il tracciamento, che rendono complesso per le persone che fanno un tampone comunicare anche la modalità con cui si sono infettate e la loro condizione di salute”, spiega Pezzotti. Che invita alla cautela quando si parla di concentrarci sul rilevamento dei soli casi gravi. “Perché le persone per aggravarsi ci mettono anche otto o dieci giorni, che si aggiungono alle due settimane che già mediamente servono per passare dall’infezione del soggetto alla registrazione del caso”, spiega, evidenziando il problema di avere i dati reali ancora più in ritardo. E sul fronte ospedaliero, in linea con quanto ribadito ieri dall’Iss sulla necessità di “riportare tutti i positivi asintomatici ricoverati”, avverte che l’accelerazione delle Regioni sui ricoveri per complicazioni non legate al Covid non è priva di rischi. “Intanto sui sintomi di Omicron ci sono ancora incognite: non possiamo escluderli del tutto solo perché il paziente non presenta quelli di tipo respiratorio”, dice. E poi, rinunciando a conteggiare tra i ricoveri Covid chi si scopre positivo dopo l’ingresso in ospedale, “potremmo non renderci conto dell’effettiva diffusione in ambiente sanitario, e capire di avere un problema quando ormai è tardi”. Al contrario, consiglia per ora di continuare a contare tutti i ricoverati infetti. Non ultima è la questione del messaggio alla popolazione, che di fronte a un tracciamento che si concentra sui soli casi gravi “potrebbe sentirsi disincentivata a testarsi”, conclude chiedendo prudenza. E non perché non sia questa la strada, come dimostrano valutazioni simili fatte anche in altri paesi europei e come insegnano i testi di epidemiologia. Ma perché la strada è essenziale imboccarla al momento opportuno.