Un inutile e fastidioso impiccio sistemato nel cuore della stagione. È cosi che il cartello dei top team europei, da sempre recalcitranti a lasciar partire i propri tesserati, considera la Coppa d’Africa. Lo scorso novembre un vespaio di polemiche si era sollevato dopo un’ambigua dichiarazione di Jürgen Klopp, accusato di aver ironizzato sul massimo torneo continentale africano. Il tecnico del Liverpool, che in questo mese perderà tre pilastri come Salah, Mané e Naby Keita, aveva poi spiegato il senso delle sue parole, aggiustando il tiro in corsa: “Ho detto che non ci sono soste per le nazionali fino a marzo, poi ho detto: ‘Oh, no, c’è un piccolissimo torneo a gennaio’. Ero del tutto ironico. Ovvio che è un grande torneo, ci vanno i miei migliori giocatori. Non penserei mai una cosa del genere”. Neppure in Italia sono mancati i malumori nei confronti della Coppa d’Africa. Luciano Spalletti, allenatore di un Napoli parecchio tartassato da infortuni e covid, ha usato toni particolarmente sprezzanti, paragonando la kermesse ad un “mostro invisibile che porta via i giocatori“.
Le tempistiche e i modi sono sicuramente sbagliati, ma per la prima volta, forse, si avverte forte l’esigenza di un dibattito serio e non strumentale attorno alla calendarizzazione della Coppa d’Africa. In particolare, considerando il livello raggiunto dal calcio africano – in grado di esportare sempre più giocatori verso l’Europa – la cadenza biennale del torneo sembra essere ormai anacronistica. Occorre, infatti, prendere coscienza di come la Coppa d’Africa non sia più un torneo di nicchia, costruito in Africa con l’Africa e per l’Africa, ma sia ormai diventato un evento con impatto globale, alla stregua di Copa América ed Europeo. Per capirlo basta dare un’occhiata alle rose delle 24 nazionali che partecipano a questa edizione. Su 672 calciatori convocati, 407 militano in Europa, provenienti da quasi 40 Paesi diversi: con 52 giocatori impegnati in Coppa d’Africa, la Ligue 1 francese è il torneo più rappresentato in Camerun, seguito a ruota da Liga (41), Premier League (38), Serie A (25) e Bundesliga (10).
Numeri importanti, mai raggiunti e nemmeno sfiorati in un passato neanche troppo lontano, anche per via di un format all’epoca più minimalista. Negli anni ’80, ad esempio, in Coppa d’Africa venivano impiegati in media 18 giocatori basati in Europa, passando dallo 0 dell’edizione del 1980 ai 45 convocati per quella del 1988. Nella decade successiva, invece, erano già diventati 89, con un aumento di oltre il 390%. Molti di loro, inoltre, sono anche nati in Europa. In Senegal, nel 1992, solo tre giocatori tra i 12 paesi partecipanti erano nati nel Vecchio Continente: due algerini nati in Francia, e il nazionale nigeriano Reuben Agboola, nato a Londra da padre nigeriano e madre inglese. Trent’anni dopo, in Camerun, i giocatori nati e cresciuti calcisticamente in Europa sono addirittura una percentuale superiore al 30%. La Francia, per ragioni che affondano le radici nella storia, conta naturalmente la pattuglia più nutrita (122), seguita da Spagna (21), serbatoio d’elezione per la Guinea Equatoriale, Inghilterra (16) e Olanda (12). La spiegazione è semplice ed è anche uno dei problemi più noti del calcio africano, ovvero la mancanza di investimenti in infrastrutture e formazione di base: “C’è una quantità straordinaria di talenti in Algeria, ma non hanno la formazione che hanno i ragazzi di origine francese”, ha spiegato a The Punch un ex commissario tecnico delle Volpi del Deserto.
Per questo l’idea di Infantino di rendere quadriennale la Coppa d’Africa, l’ultimo grande torneo per nazioni insieme alla Gold Cup rimasto a cadenza biennale, non sembra del tutto campata in aria. La questione è anche economica, come ha lasciato intendere lo stesso presidente della FIFA nel febbraio del 2020: “L’ultima CAN ha generato entrate venti volte inferiori rispetto all’ultimo Europeo. Una fase finale giocata ogni quattro anni, probabilmente, potrebbe rendere il torneo più attraente a livello mondiale“. Tutto questo prima dello scoppio dell’affaire Lagardère Sport. Un pasticciaccio burocratico che ha portato all’annullamento di un accordo da 1 miliardo di dollari in 12 anni stipulato tra la CAF e l’agenzia francese per la trasmissione in diretta di tutti i suoi eventi, costringendo il governo del calcio africano ad indire in fretta e furia un bando allo scopo di trovare broadcasters internazionali interessati all’acquisto dei propri diritti tv.
Allo stesso modo, però, non si può trascurare il sentiment dei tifosi africani, per i quali la Coppa d’Africa ogni due anni è ormai diventata un rito, un momento di festa e allegria a cui non intendono rinunciare. Lo ha spiegato molto bene il difensore marocchino Fouad Chafik, intervistato qualche anno sul tema da So Foot: “La Coppa d’Africa è un evento per gli africani, che attendono con impazienza questa competizione ogni due anni. Inoltre, sapendo che è difficile qualificarsi per un Mondiale, la CAN è l’unica possibilità per alcune selezioni di partecipare regolarmente a una fase finale. E poi – continua – l’organizzazione di un torneo come questo consente ai paesi di migliorare le proprie infrastrutture, come strade o hotel”. C’è, però, anche chi come Drogba sarebbe favorevole alla svolta ipotizzata da Infantino e caldeggiata dai grandi club europei. “Questa può essere una cosa positiva, perché darebbe un sapore molto speciale a questo trofeo”, ha dichiarato il totem della Costa d’Avorio. Il dibattito, insomma, è soltanto all’inizio.