Il nuovo codice della crisi di impresa è stato introdotto con il dlgs 14/2019, quindi prima dello scoppio del Covid. La crisi economica accentuata e conseguente alla pandemia ed una illogica predisposizione mentale al riconoscimento degli errori da parte degli imprenditori ne hanno reso evidenti i difetti per la valutazione degli eventuali segnali dello stato di pre-crisi dell’impresa, soprattutto della piccola impresa.

Ricordiamo che l’entrata in vigore del nuovo Codice, sulla carta una opportunità storica per il risanamento del tessuto imprenditoriale del paese, ha l’obiettivo preminente di anticipare – e non accertare e conclamare – attraverso alcuni strumenti tecnici l’emersione dello stato iniziale di crisi nonché l’aggravarsi del medesimo.

Il motivo è semplice: il ritardo nel percepire i segnali di crisi può poi condurre a situazioni irreversibili. In altri termini la nuova riforma vuole essere prodromica rispetto alle procedure concorsuali (fallimento in primis) per permettere una diagnosi precoce delle situazioni di difficoltà e salvaguardare la capacità imprenditoriale.

In particolare, il nuovo Codice della crisi d’impresa prevede (art.13) quale segnalatore dello stato di pre-crisi un apposito indice in grado di esprimere la sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale per almeno sei mesi.

La grande novità consiste nel fatto che l’onere della rilevazione tempestiva delle situazioni di allerta della crisi è in capo all’imprenditore. Cioè è l’imprenditore che, chi meglio di lui, si sottopone volontariamente ad una auto-diagnosi (attraverso un link presente sui siti delle Camere di Commercio) per verificare se quei segnali, che magari lui percepisce “a naso”, rappresentino effettivamente degli allert sostanziali dello stato di salute della azienda.

Una novità che risolve innanzitutto il problema della proverbiale ritrosia del piccolo imprenditore nostrano a riconoscere una inefficienza della sua azienda. Un blocco psicologico, soprattutto determinato dai tanti sacrifici fatti, ad accettare la formalizzazione della crisi della sua impresa. “Lo so che la mia azienda non va bene ma non voglio che me lo dicano gli altri”, è il pensiero recondito della maggior parte dei piccoli imprenditori. “E, quindi, siccome in questo caso, posso capirlo da solo senza farlo sapere a terzi, allora mi sottopongo al test”, potrebbe essere la reazione alla inibizione mentale.

Se però l’auto-diagnosi risolve, da un lato, un problema psicologico, dall’altro lato sembra non poter garantire il superamento di un’altro ostacolo: una analisi veritiera dello stato di pre-crisi.

Vediamo perché.

L’indicatore in questione è il DSCR (debt service coverage ratio), un rapporto che, per indicare una azienda non in crisi, deve avere valori maggiori di 1, cioè il numeratore deve essere maggiore del denominatore.

Al numeratore dovrà essere imputato il cash flow disponibile per il servizio del debito, calcolato operando la somma tra le giacenze di cassa iniziali e le entrate previste nell’arco dei sei mesi cui detrarre le uscite operative previste nel medesimo periodo per il pagamento delle tasse;

Al denominatore è indicata la somma delle uscite a rimborso del debito finanziario verso banche o altri finanziatori, inteso quali quote capitali e interessi previste a pagamento nei sei mesi successivi.

Dalla analisi della formula emergono alcune considerazioni che non vogliono assolutamente essere una critica al lavoro dei dottori commercialisti cui è stato conferito l’incarico di calcolare gli “indici”. Non ho alcuna pretesa di essere in grado di formulare migliori indicatori, in quanto sarebbero comunque degli indici e, come tali, viziati dall’esiziale difetto della sinteticità. Ma qualche perplessità sussiste.

Innanzitutto, per sottoporsi sistematicamente a questi test, la piccola impresa deve redigere un budget di tesoreria che contempli le entrate e le uscite di disponibilità liquide attese nei sei mesi successivi. Alzi l’indice chi, per motivi professionali, ha utilizzato tutte le dita delle mani per contare le aziende di quelle dimensioni in possesso di un budget di tesoreria. Non è una giustificazione, anzi, ma sicuramente una fotografia della necessità di cambiamento che le piccole realtà devono ancora realizzare. Ancora, appunto.

In secondo luogo, ci siamo chiesti: se nei sei mesi a venire fosse prevista l’erogazione di un mutuo, l’importo andrebbe assommato ai flussi in entrata al numeratore? In tal caso, un caso molto frequente in questi ultimi mesi per soddisfare il classico schema sostenuto dal sistema creditizio per cui si paga il debito contraendo nuovo debito, l’impresa, con la complicità delle banche, avrebbe edulcorato l’indice e non ci sarebbe nulla da eccepire!

L’indice sarebbe a posto contravvenendo ad una regola fondamentale della gestione del debito: il debito a medio lungo termine (e men che meno quello a breve termine) non si copre contraendo un nuovo debito a medio-lungo termine. Il debito ha valore quando serve ad alimentare l’attivo dello stato patrimoniale (un immobile, un impianto, il magazzino, i crediti) altrimenti si realizza il cosiddetto effetto neve: quando si scioglierà, i problemi saranno di nuovo lì ad attenderci.

Non solo ma pensiamo poi ad un’entrata straordinaria dovuta al disinvestimento di un asset (immobile, marchio, rimanenze di magazzino), magari sopravvalutato in bilancio e quindi capace di realizzare anche una minusvalenza utile ai fini fiscali. Ebbene, anche questo tipo di entrata andrebbe contemplato al numeratore e, magari, potrebbe essere ciò che rende il DSCR maggiore di 1.

Ancora: al denominatore tra le uscite a rimborso del debito finanziario consideriamo anche le chiusure delle linee di credito come i “finanziamenti import” o “anticipo ai fornitori”? Perché, anche se trattasi normalmente di fidi validi fino a revoca (della banca) e quindi da non contabilizzare al denominatore dell’indice, nella realtà degli ultimi tempi per le banche, alle prese con i loro problemi di gestione del costo del rischio, vengono spesso considerate linee di credito a scadenza.

Ed infine come va trattato il leasing finanziario? Deve essere considerato come un debito finanziario oppure operativo? Il problema della contabilizzazione del leasing, legato al principio contabile adottato dall’impresa, rimane un fattore di distorsione nelle analisi di bilancio e del debito!

Quante scappatoie! L’impresa che vuole evitare la tagliola del DSCR potrebbe “organizzarsi” per calcolarlo, incautamente direi, pro domo sua. Queste sono solo alcune delle considerazioni che confermano che nessun indice può sostituire un analista finanziario in grado di leggere le sue sfaccettature: valori passibili di sofisticazioni e di “ingentilimenti”; costi che in realtà sono utili (quali i compensi amministratori); capitali circolanti negativi per peculiarità di settore; debiti che creano grandi distorsioni di rappresentazione; regole non scritte del sistema bancario finalizzate solo alla realizzazione del loro profitto.

Le crisi e i suoi segnali possono essere identificati solo con una lettura complessiva di questi e altri elementi.

Farei molta attenzione.

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