La partita per il Quirinale entrerà nel vivo, ufficialmente, dal 24 gennaio, sebbene le cronache parlamentari e i resoconti giornalistici ci restituiscano un’immagine di grande fibrillazione tra i partiti. Come membri attivi della cittadinanza, la cosa riguarda anche le persone Lgbt+ che guardano con attenzione a quanto avverrà da qui al giorno dell’elezione del nuovo presidente. Ricordiamo, infatti, che il futuro inquilino del Quirinale è uno strumento chiave della nostra democrazia. La sua funzione è quella di arbitrare l’agone parlamentare, vigilare sulla qualità delle nostre leggi – che devono attenersi al dettato costituzionale – e gestire passaggi anche delicati sotto il profilo istituzionale e politico. Le cronache degli ultimi anni ce ne hanno dato prova.
Gli anni a venire vedranno, nella difesa dei diritti della comunità arcobaleno, un fronte cruciale. Sia perché, in caso di vittoria di forze progressiste e democratiche, questioni come la legge contro i crimini d’odio e l’allargamento del matrimonio – compreso il capitolo dell’omogenitorialità – entreranno nei programmi dei partiti e nell’azione di governo, sia perché, come è più probabile, nel caso dell’arrivo al potere delle destre sovraniste e illiberali bisognerà difendere il poco che è già stato approvato nel nostro paese. Se non vogliamo arrivare, in termini concreti, a situazioni come quelle che vediamo in Polonia e Ungheria, paesi che discriminano donne e persone Lgbt+.
In questo quadro, chi risiederà al Quirinale avrà un compito delicatissimo: dovrà vigilare la qualità delle leggi che premono alla comunità Lgbt+; e dovrà scongiurare derive come quelle che vediamo nei paesi dell’Est, portate avanti da partiti populisti e di estrema destra. In questo quadro, i nomi che circolano non fanno ben sperare. Vediamo perché.
Il primo tra questi nomi è proprio quello di Silvio Berlusconi. Sul perché non sia un candidato accettabile rimando alle parole di Marco Damilano su L’Espresso: “Non può diventare Presidente della repubblica chi ha lanciato il populismo per distruggere le istituzioni. Significherebbe riportare indietro il paese e lasciare la politica smarrita” si legge nel suo pezzo. E basterebbero queste poche righe a chiudere la questione. Se poi pensiamo al bunga bunga, alla condanna per evasione fiscale, alle barzellette imbarazzanti, fino alle battute sui gay e le persone sieropositive, il quadro è abbastanza chiaro. E sconfortante.
L’altro nome che circola è quello di Giuliano Amato. Nel 2000, anno del Giubileo, l’allora presidente del Consiglio disse che purtroppo c’era la Costituzione e non si poteva vietare di fare il World Pride a Roma. Certo, sono passati oltre vent’anni, ma sarebbe il caso di capire come la pensa oggi l’ex premier su tali questioni. Anche perché quel purtroppo pesa ancora come un macigno. Soprattutto per chi sulla Costituzione, che per fortuna c’è, dovrebbe vigilare.
Su Mario Draghi, altro candidato eccellente, abbiamo pochi elementi per tracciare un quadro. Sicuramente, come Giuliano Amato, siamo di fronte a persone dall’alto profilo istituzionale. E fin qui, nulla da eccepire. Ma restano le perplessità. Come si comporterebbe di fronte a una situazione di conflitto istituzionale rispetto ai temi cari alla comunità Lgbt+? Non è dato, al momento, saperlo.
Poi ci sono le “candidate”. Finora ho parlato al maschile perché i nomi fatti sono di uomini. La questione di una candidatura al femminile è invece auspicabile. Il grado di civiltà di una nazione si esprime anche attraverso il numero di donne ai massimi incarichi, per cui ben venga una presidente della Repubblica. Ma essere donna non è di per sé una garanzia, se poi si adotta o si incarna un profilo assimilabile alla cultura patriarcale e maschilista. Rosy Bindi, tanto osannata a sinistra perché donna e per il fatto di essere una persona onesta (ma tale requisito dovrebbe essere il punto di partenza) ha per esempio proferito parole orribili sulle famiglie arcobaleno: “Due omosessuali non possono sposarsi: non lo dice solo la Bibbia, ma l’intera civiltà giuridica”. E ancora: “Il desiderio di paternità o di maternità gli omosessuali se lo scordano. (…) È meglio che un bambino stia in Africa con la sua tribù, piuttosto che cresca con due uomini o due donne, con genitori gay”. Ed Elisabetta Alberti Casellati e Marta Cartabia – altri nomi “papabili” – hanno già espresso posizioni contrarie sul matrimonio egualitario.
Certo, la questione Lgbt+ non può e non deve essere l’unica discriminante: me ne rendo conto. Ma sarebbe auspicabile un/a presidente che, giurando sulla Costituzione – e sorvegliando sul rispetto dei massimi valori fondanti della nostra Repubblica, a cominciare dall’antifascismo – guardasse con attenzione all’articolo 3. Che, ricordiamolo, sancisce l’uguaglianza formale di tutti e tutte. E il quadro politico futuro getta molte ombre sul rispetto di questo principio. Staremo a vedere, non certo con le mani in mano.