Il regime siriano di Bashar al-Assad si trova oggi in una situazione che ha del paradossale: da un lato alcuni dei suoi esponenti vengono riconosciuti colpevoli di crimini contro l’umanità dalla giustizia europea, dall’altro il governo di Damasco sembra pronto a uscire dall’isolamento in cui versa da almeno un decennio e a riallacciare le relazioni diplomatiche non solo con i vicini arabi, ma forse anche con alcuni Paesi occidentali.
Il 13 gennaio il tribunale della città tedesca di Coblenza ha condannato all’ergastolo Anwar Raslan, 58enne ex colonnello dell’intelligence interna siriana. L’uomo è stato giudicato responsabile della tortura di 4mila persone nella famigerata prigione di al-Khatib, definita dagli oppositori del regime di Assad L’inferno in terra. Raslan è stato accusato per il suo ruolo di alto funzionario dei servizi di sicurezza durante le manifestazioni di piazza iniziate nel 2011 sull’onda lunga delle “primavere arabe” che venivano represse nel sangue dalle forze militari del presidente Assad. La sua sentenza arriva dopo quella a febbraio 2021 di Eyad al Gharib, un sottoposto di Raslan, condannato a 4 anni e 6 mesi di reclusione sempre dal tribunale di Coblenza.
L’Alto rappresentante delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha elogiato la condanna come un “passo in avanti fondamentale” nella ricerca della verità per le vittime del regime siriano e del suo sistema detentivo. Ciononostante, la normalizzazione del regime di Damasco di fronte alla comunità internazionale sembra procedere ormai a vele spiegate. Vari attori mediorientali, alcuni dei quali nel 2011 avevano decretato l’espulsione della Siria dalla Lega Araba, adesso spingono per il reintegro del regime di Damasco. Ultimo in ordine di tempo, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha fatto sapere che – per la prima volta dal 2009 – si recherà presto in visita a Damasco per incontrare Assad. Ad ottobre 2021, invece, il presidente siriano ha ricevuto la prima telefonata in dieci anni dal re di Giordania, Abdullah II, descritta da entrambe le parti come “franca e cordiale”.
Sempre nel mese di ottobre, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, il ministro degli esteri egiziano, Sameh Shoukry, ha incontrato l’omologo siriano Faisal al-Miqdad. Anche in questo caso si è trattato della prima volta di un incontro di questo livello in quasi dieci anni. Pure il Bahrain ha deciso di normalizzare completamente le relazioni diplomatiche con il governo siriano, nominando un nuovo ambasciatore a Damasco il 30 dicembre 2021. Tuttavia, in questo percorso di riapertura al regime tra i Paesi dell’area è risultato decisivo l’apporto degli Emirati Arabi Uniti, primo paese a riaprire la propria ambasciata in Siria già a fine 2018. Da allora, infatti, è stato un susseguirsi di accordi commerciali, culturali e incontri di alto livello a margine dell’Expo 2020 a Dubai.
Ma c’è la possibilità che anche qualche Paese occidentale, come l’Italia, torni seriamente a considerare la possibilità di riaprire le porte ad Assad? Nel nostro Paese i precedenti non mancano, considerato che l’11 marzo 2010 l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, conferiva al presidente siriano l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone al merito (revocata nel 2012). A febbraio 2018, invece, il quotidiano libanese Al Akhbar faceva filtrare la notizia secondo cui l’allora Consigliere per la sicurezza nazionale siriana, Alì Mamlouk, fosse addirittura venuto in visita segreta a Roma per incontrare una delegazione dell’intelligence italiana.
Secondo Giuseppe Dentice, responsabile del desk Medio Oriente e Nord Africa del Centro Studi internazionali, ad oggi non sembrano esserci in Europa e in Occidente seri intenti di normalizzazione con Assad e in questo senso le sentenze di Coblenza potrebbero non essere elemento indifferente. “Sebbene queste decisioni abbiano un’indiretta rilevanza politica – spiega Dentice a Ilfattoquotidiano.it – al contempo mostrano una netta discrepanza tra la percezione che abbiamo noi europei e occidentali verso questi fatti criminosi e la medesima vissuta dalle autorità siriane, che oggi come in passato non si sono mostrate minimamente preoccupate dalle accuse, anche dinanzi a prove fattuali”.
Non è da escludere, però, che il ritorno di Damasco nel consesso diplomatico del Medio Oriente “possa favorire una sorta di pressione, specie nei confronti dei Paesi occidentali partner degli attori arabi coinvolti nella ripresa dei rapporti con Assad”, prosegue Dentice.
“È evidente – argomenta l’esperto – che esiste a livello soprattutto mediorientale una sorta di operazione trasversale di lobbying nel tentativo di riabilitare il regime assadiano, con tutto l’annesso di crimini, come un male accettabile in nome di un bene superiore. Un’operazione complessa portata avanti con decisione in particolar modo da Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania e Algeria, ognuno con propri interessi peculiari, ma tutti volutamente uniti nel garantire una sorta di rinnovata unità araba regionale difronte al dilagare di presunte nuove o vecchie minacce”.
Ciononostante è bene sottolineare che “il processo di normalizzazione delle relazioni in corso rischia non solo di reintegrare pienamente Damasco nell’architettura regionale, ma di incoraggiare e lasciare inalterate le politiche del regime sul piano interno, anche le più scellerate soprattutto verso avversari politici e nemici militari, accentuando quindi una perdita di credibilità della comunità regionale e internazionale”, aggiunge Dentice. “Ricordiamo sempre – conclude lo studioso – che entrambe erano intervenute strumentalmente nel conflitto siriano per denunciare e combattere i crimini di guerra perpetuati dalla famiglia Assad, mentre oggi potrebbero essere disposte ad accettare determinate scelte in nome di una spesso troppo abusata realpolitik. Un segnale che andrebbe quindi in netta contraddizione con la sentenza di Coblenza, mortificando in primis le vittime innocenti dei crimini del regime di Damasco”.