Ricchezza e povertà in Lombardia in due soli numeri a confronto. Nel 2021 il rogito più ricco per un appartamento nel Bosco Verticale di Milano è valso la bellezza di 5 milioni e 570mila euro per 303 metri quadrati al 22esimo piano del grattacielo simbolo della città: 18mila euro al metro quadrato, pagati dal manager di un’importante società assicurativa figlio di un altrettanto importante avvocato milanese. Sempre 18mila, anzi qualcosa in più, sono invece le famiglie che nella sola area metropolitana di Milano rischiano di perdere la casa, dice l’assessore alle Politiche abitative di Palazzo Marino, Pierfrancesco Maran, riprendendo articoli di stampa nelle ore in cui il “blocco degli sfratti” diventa solo uno sbiadito ricordo delle prime fasi pandemiche.
Uno “tsunami” da 150mila famiglie, per La Stampa. “Una valanga” da “oltre 100mila sfratti” che “saranno immediatamente in esecuzione con la forza pubblica” secondo il segretario nazionale dell’Unione Inquilini Walter De Cesaris. A cui sommare – stima sempre il sindacato – 100mila esecuzioni immobiliari per insolvenza su mutui o debiti. I numeri non sono certi anche perché in Italia non esiste una centrale unica pubblica che li raccolga. Di sicuro c’è che circa 70mila sono gli sfratti pendenti dal 2019, la differenza tra le richieste di esecuzione e quelli eseguiti con la forza pubblica. Di questi 32mila nel 2020 e altri 40-50mila stimabili nel 2021 in tutta Italia.
Che succede ora con la fine del blocco? Vanno graduati per non essere travolti. I tribunali lavorano su udienze, convalide ed esecuzioni. Se l’inquilino si rivolge ai sindacati ha molte possibilità che gli ufficiali giudiziari procedano con qualche sospensione rinviando l’allontanamento dagli appartamenti, ma a un certo punto il proprietario chiamerà per forza di cose la forze dell’ordine. Questori e Prefetti devono però capire come, chi e quando essendo impegnati su vari fronti: dal green pass ai mezzi di trasporto pubblico, dalle scuole agli assembramenti. È questo il motivo della querelle natalizia fra il prefetto di Milano, Renato Saccone, e la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. Il primo aveva annunciato già a inizio dicembre pubblicamente di voler sospendere gli sfratti fino al 15 di gennaio – come poi è stato – mentre la ministra dei governi Conte-bis e Draghi, ed ex prefetto proprio a Milano, lo aveva bacchettato a distanza in Commissione Affari Costituzionali alla Camera dei Deputati la settimana dopo, dicendo che “non corrisponde al pensiero del prefetto né dell’amministrazione dell’Interno. Ci siamo sentiti, evidentemente era un momento di particolare pressione, ha fatto una dichiarazione un po’ incauta che non corrisponde a quelle che sono le forze messe in campo per garantire anche altri servizi”.
Gioco delle parti o divergenza di vedute? La realtà è che l’ordine di servizio impartito da Corso Monforte è durato pochi giorni ma allo stesso tempo anche ora, che non ci sono più ostacoli giuridici, la concessione della forza pubblica andrà parecchio a rilento. Quanto meno per dare modo al Comune di Milano di adeguarsi sul tema dell’emergenza abitativa, riuscire cioè a far “matchare” gli sfratti eseguiti dalla polizia con gli alloggi temporanei dove mettere le famiglie nella disponibilità dell’amministrazione e che hanno vari nomi: Sat, Rst, Aute, hub e alberghi.
Si litiga invece sulle case popolari, l’ultimo terreno di scontro con la Regione Lombardia di Attilio Fontana. Se prima delle elezioni amministrative del 3-4 ottobre si pensava addirittura di fondere in unico ente le case popolari Aler di Regione (36mila in città) e quelle comunali di Metropolitana Milanese (28mila), ora Palazzo Marino e Palazzo Lombardia si punzecchiano a mezzo stampa su colpe e responsabilità legate al patrimonio sfitto e le graduatorie che non funzionano. Il motivo? Il Comune sta approvando in questi giorni il Piano di Offerta Pubblica Abitativa per il 2022: ci sono dentro 2.200 case popolari assegnabili (e 300 per l’emergenza) ma su questo fronte la legge regionale 2016 (modificata nel 2021) ha fallito nemmeno cinque anni dopo la sua approvazione e sperimentazione.
Tutte polemiche che interessano il giusto 866mila famiglie in povertà assoluta che vivono in affitto in Italia, il 18% del totale degli affittuari italiani che pagano 330-340 euro al mese per il canone su una spesa complessiva di 960 euro ogni 30 giorni per vivere. La metà di loro è nella fascia di età 35-54 anni. Cifra simile fra chi una casa la possiede: 890mila famiglie in povertà assoluta ma che in termini relativi scendono al 4,7% dei proprietari. I numeri peggiorano se il nucleo ha come elemento di riferimento uno straniero o una donna. Sono i numeri messi nero su bianco dall’Istat pochi mesi fa sulla condizione abitativa nel proprio ultimo rapporto nazionale sulla povertà.
Dati a fronte dei quali l’idea di un “piano casa”, come nel dopoguerra, dovrebbe essere al centro dell’attenzione della politica romana. Non è così. La “casa”, quella pubblica, è forse una delle parole meno ricorrenti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, nella legge di Bilancio e nei decreti emergenziali degli ultimi mesi: in Italia da qui al 2026 non verranno incrementate le case popolari almeno su iniziativa del governo. Alcuni Comuni – a partire da Milano – stanno declinano i piani locali per fare un po’ di manutenzione ed efficientamento energetico sul patrimonio pubblico in singoli quartieri dove sono riusciti a reperire i fondi. Le cifre non superano qualche decina di milioni di euro. Se la passa meglio l’abitazione privata. Che oltre ai micro bonus su rubinetteria, varie ed eventuali, ha incassato il Superbonus al 110% senza soglie di reddito, esteso anche alle seconde case. Finora è costato circa 15 miliardi di euro, ha segnalato l’Agenzia delle Entrate, cifra che potrebbe raddoppiare da qui a fine misura nel 2023.
Il tema della rigenerazione urbana invece nel Recovery italiano c’è. Il 31 dicembre sono stati annunciati i 2.418 progetti (pari a 4,4 miliardi di euro) che hanno fatto richiesta di accedere ai finanziamenti Pnrr. Il decreto governativo pubblicato in Gazzetta ufficiale che ripartisce i contributi per il 2021-2026 nell’ambito del Piano ha per ora messo a bilancio 3,4 miliardi di euro ma nessuno ha idea di quali siano le opere, segnalate con dei codici identificativi e non con dei progetti. Ma la rigenerazione urbana è al momento anche al centro di una proposta legislativa già depositata al Senato. Il Ministro delle Infrastrutture e delle Mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, ha nominato una commissione tecnica di esperti (“Commissione per la riforma della normativa nazionale in materia di pianificazione del territorio, standard urbanistici e in materia edilizia”) con dentro un po’ di professionisti fra accademici, avvocati, urbanisti, architetti fra i quali spiccano i nomi di Stefano Boeri e l’avvocato e professore Bruno Barel, in Veneto fautore del principio “abbattere per creare valore”.