In questi giorni si fa tanto parlare del caro caffè al bar. Da viaggiatore e assiduo frequentatore di banconi, posso confermare: a Bologna, dove vivo, il prezzo di una tazzina oscilla tra 1,10 e 1,30 euro, con picchi di 1,50 nei bar a ridosso delle Due Torri.
In una recente intervista al dorso bolognese di Repubblica, Giancarlo Campolmi del Gran Bar di via d’Azeglio, in pieno centro città, ha inquadrato così il problema: “I prezzi sono alle stelle, ma sto facendo di tutto per mantenere bloccato quello della colazione: il caffè è a 1,20 euro, mentre la brioche è a 1,30. Al contrario di altri prodotti come i cocktail, non voglio toccarli perché sono beni di prima necessità. Ho una clientela fissa all’80% e non mi piace l’idea di rincarare”.
L’aumento del prezzo dell’adorata tazzina di espresso al bar – un appuntamento quotidiano per cinque milioni di italiani – sconta gli incrementi di tutta la filiera del prodotto: dalla logistica al packaging fino all’energia. Quello che si spendeva prima per sei mesi di luce per la tostatura, dicono i baristi bolognesi, ora lo si spende in due. Conta ovviamente anche il fatto che in giro c’è poca gente e i turisti sono un miraggio – come il superamento del 3% per Italia Viva. Dice Loreno Rossi di Confesercenti: “I bar stanno lavorando molto meno per il Covid. Siamo preoccupati per la ripresa dell’inflazione che si scarica pesantemente sui locali”. Che a loro volta la scaricano sui consumatori. Il rischio, quindi, è di far diventare la colazione cornetto e caffè/cappuccino un piccolo lusso.
È anche vero che quello della colazione al bar è un prezzo anelastico, come d’altronde buona parte della domanda dei beni di prima necessità ma anche, paradossalmente, quella dei beni di lusso. In altre parole, essa varia meno del prezzo. Così come io accettavo di spendere 2.30 euro per la colazione pre-Covid, adesso accetto di spenderne 3.50. Se però un giorno al caffè e alla brioche decido di aggiungerci una spremuta e il cassiere mi rifila uno scontrino di 8,10 euro, la musica un po’ cambia.
Evito ora disquisizioni sociologiche che allungherebbero irrimediabilmente questo post e vado subito al punto, rivolgendo una domanda al lettore: chi è in grado di spiegarmi perché una spremuta d’arancia – un bene che abbonda in Italia, per il quale non sono previste né lunghe spedizioni né spese accessorie come la tostatura, che non richiede alcuna fatica nella sua preparazione sotto forma di spremuta, visto che fa tutto la macchina – perché, dicevo, una semplice spremuta ottenuta dalla spremitura di tre-arance-tre è arrivata a costare 5 euro in un bar del centro di Bologna quando un chilo di arance (7-8 frutti) costa da 0,35 euro al chilo in un mercato di Catania ai 3 euro al chilo in un mercatino biologico non molto distante dalle Due Torri?