Il voto sul prossimo inquilino del Quirinale si avvicina e il centrodestra, per l’occasione unito come un sol uomo, chiede lo stralcio dalla delega fiscale della revisione del catasto. Ma il presunto rischio “stangata” nulla c’entra. Tre diversi indizi dimostrano che la decisione di Lega e Forza Italia di far sponda con Fratelli d’Italia e mettersi di traverso su uno dei provvedimenti più divisivi per l’attuale maggioranza è tutta politica. Primo: tra 2013 e 2014 gli stessi partiti hanno votato in Parlamento una delega fiscale che prevedeva una revisione del catasto con caratteristiche identiche (quasi parola per parola) a quella proposta dal governo Draghi. Secondo: nel 2020 la commissione di vigilanza sull’anagrafe immobiliare presieduta dal leghista Ugo Parolo si è espressa a favore della riforma degli estimi. Terzo: se anche l’aggiornamento sfociasse in una revisione della base imponibile, il risultato non sarebbe la “patrimoniale occulta” paventata da Matteo Salvini ma un riequilibrio nel senso di una maggiore equità: chi abita in periferia sarebbe avvantaggiato, mentre a rimetterci sarebbero i proprietari di seconde case nel centro delle grandi città e nelle zone turistiche.
La delega di Renzi del 2014 (che il nuovo ddl copia) per Brunetta era “fatta da Berlusconi” – Il ddl delega varato in consiglio dei ministri lo scorso ottobre con la defezione della Lega, va ricordato, prevede solo che ad ogni unità immobiliare sia attribuito oltre all’obsoleto valore catastale anche “il relativo valore patrimoniale e una rendita attualizzata in base, ove possibile, ai valori normali espressi dal mercato“. Il tutto a far data dal 2026 ed escludendo esplicitamente che le nuove informazioni siano utilizzate per aumentare le imposte a qualcuno. E’ chiaro però che, una volta portate alla luce le iniquità del sistema attuale, sarà difficile per chi in quel momento si troverà al governo non intervenire. Ma è altrettanto chiaro che l’opposizione del centrodestra non nasce da reali timori sugli effetti per i contribuenti. Perché otto anni fa, a cavallo tra i governi Letta e Renzi, forzisti, Lega e FdI pur trovandosi all’opposizione hanno votato convintamente una delega fiscale che all’articolo 2 disponeva la “revisione del catasto dei fabbricati” da attuare – pur con il paletto del gettito complessivo invariato – “attribuendo a ciascuna unità immobiliare il relativo valore patrimoniale e la rendita“, “con riferimento ai rispettivi valori normali espressi dal mercato“. Frasi identiche a quelle dell’articolo 6 della “nuova” delega, molto più stringato ma per oltre il 90% copiato dal testo del 2014. Che al centrodestra all’epoca piaceva moltissimo: il 28 febbraio 2014, dopo il via libera definitivo della Camera, l’allora capogruppo di FI Renato Brunetta seduto al fianco del relatore Daniele Capezzone esultava: “La prima riforma di Renzi l’ha fatta Berlusconi“. Certo, il Patto del Nazareno aiutava. Più che il catasto poté con ogni probabilità la ventilata revisione delle sanzioni penali e amministrative per i reati fiscali: ci mancò poco che l’ex Cavaliere ora in corsa per il Colle non riuscisse a incassare l’estinzione del reato di frode al fisco per cui è stato condannato in via definitiva.
Il documento della Commissione di vigilanza guidata da un leghista – La parte della delega del 2014 relativa all’aggiornamento dei valori è poi rimasta inattuata. Ma la necessità di metter mano al catasto, come da anni chiedono Ocse e Commissione europea, è fuori discussione. Nel marzo 2019 la Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria guidata dal deputato leghista Parolo ha avviato una “indagine conoscitiva per una riforma della fiscalità immobiliare” proprio per esaminare i motivi della “mancata riforma del sistema estimativo del catasto dei fabbricati” e individuare possibili interventi nel segno di “equità e semplificazione”. Il documento conclusivo, approvato a fine gennaio 2020, riparte dai principi del 2014 e auspica la riforma degli estimi catastali attraverso la definizione di una rendita ma anche del valore patrimoniale, metodo che andrebbe sostituito a quello attuale dei moltiplicatori che “produce iniquità tra i contribuenti”. La stima del valore dovrà prevedere correttivi ad hoc per evitare che singoli edifici si vedano attribuire estimi superiori al valore di mercato. Per evitare di scontentare i contribuenti si sottolinea poi “l’importanza del coinvolgimento dei cittadini” e l’opportunità di garantire l’invarianza di gettito delle singole imposte sulla casa. Insomma: diverse cautele ma sicuramente non lo stop a “qualsiasi ipotesi di riforma del catasto” invocato da Salvini.
A chi conviene non cambiare nulla – Infine, per arrivare al merito: davvero la riforma prefigura una stangata? A chi conviene che il catasto resti com’è? La domanda se la sono fatta lo scorso anno due ricercatori del think tank Tortuga che in un’analisi pubblicata su lavoce.info hanno misurato lo scostamento tra valore di mercato (sulla base dei dati dell’Osservatorio mercato immobiliare delle Entrate) e valore catastale delle abitazioni civili in tutti i comuni italiani. Ne emergono forti disuguaglianze tra Nord e Sud e tra le aree urbane e costiere e quelle interne: “Le aree maggiormente agevolate dall’attuale disallineamento dei valori sono le zone costiere di Sardegna, Toscana e Liguria, oltre a grandi città come Roma e Milano“, scrivono Emma Paladino e Giorgio Pietrabissa. “Dall’altro lato dello spettro, troviamo invece le aree interne del Sud Italia. Dall’attuale sistema catastale sembrano beneficiare quindi i proprietari di immobili in zone turistiche e nei centri produttivi”. Dati che confermano una simulazione della Uil secondo cui la rivalutazione vedrebbe aumentare le rendite soprattutto nei centri storici eliminando il paradosso per cui immobili di periferia e di costruzione recente valgono agli occhi del fisco più di un appartamento di pregio in zona centrale. Il vero problema semmai potrebbe essere l’impatto sull’Isee, che potrebbe però essere aggirato rivedendo gli attuali requisiti di accesso a varie misure di welfare.