In un editoriale si mette in dubbio "l'effetto Draghi" di cui si è tanto parlato nell'ultimo anno. Tanto da chiedersi se "sia veramente in grado di utilizzare le leve del potere politico a disposizione di Roma" come fatto da presidente della Bce e da citarlo tra “i tecnocrati e centristi italiani sopravvissuti alla politica degli anni Ottanta” che “hanno domato l'aumento del debito pubblico, ma al prezzo di un drammatico rallentamento della crescita economica”
“Mario Draghi non ha più il whatever it takes”. È questo il titolo di un’analisi pubblicata da Foreign Policy, autorevole rivista americana dedicata alle relazioni internazionali. “Che sia primo ministro o presidente, potrebbe non avere la soluzione ai problemi dell’Italia”, si legge nell’eloquente sottotitolo. Mentre parte della stampa internazionale, ultimi in ordine di tempo il Financial Times e il New York Times, spingono per la salita al Colle dell’ex presidente della Banca centrale europea, la celebre rivista americana dà un giudizio controcorrente, parlando di un mandato per adesso impalpabile a Palazzo Chigi.
Stando all’analisi della rivista americana, elaborata dal professor Adam Tooze della Columbia University, il premier Draghi “nel suo precedente ruolo (di presidente della Bce, ndr) ha esercitato il potere della Banca Centrale per calmare i mercati obbligazionari” e tuttavia “è un fatto molto meno ovvio se sia in grado di utilizzare le leve del potere politico a disposizione di Roma per affrontare il problema di fondo della crescita inadeguata dell’Italia”. L’articolo introduce quindi la diatriba relativa al bivio Chigi-Quirinale di fronte alla quale si trova oggi Draghi, ricordando che durante la Guerra Fredda – quando la Democrazia Cristiana dominava la politica italiana – la presidenza della Repubblica aveva poca autonomia di manovra. Ciò che ha reso il Quirinale il principale playmaker della politica italiana, ragiona l’autore, è stata la frammentazione del sistema politico che si è evoluto prima nel bipolarismo (pro e contro Berlusconi) e infine nella balcanizzazione di oggi.
“Governare in Italia – scrive FP – è difficile non solo per la complessità politica. Ciò che rende complesso sostenere la legittimità è il fatto che l’economia non fornisce mai i risultati di cui i politici hanno bisogno”. L’articolo richiama quindi alla memoria il periodo delle generose leggi di spesa degli anni ottanta – in pieno periodo craxiano – con cui il sistema politico cercava di guadagnare popolarità scavando una voragine nel debito pubblico del Paese. Draghi viene annoverato tra “i tecnocrati e centristi italiani sopravvissuti alla politica degli anni Ottanta”, i quali “hanno domato l’aumento del debito pubblico italiano, ma al prezzo di un drammatico rallentamento della crescita economica”. In termini reali, spiega ancora Foreign Policy, “il Pil italiano nel 2019 è stato solo del 4% superiore al livello del 2000”. In termini pro capite, gli italiani non hanno in pratica visto miglioramenti per due decenni, mentre il Pil pro capite in Francia e Germania è salito rispettivamente del 16% e del 25%”, prosegue la rivista Usa.
Parlando dell’idea comune per cui la presidenza della Repubblica tende a stabilizzare l’equilibrio politico, Tooze osserva che “gli interventi presidenziali possono servire come mezzo di gestione delle crisi” ma vale la pena chiedersi se “alla lunga indeboliscono e destabilizzano la politica dei partiti”. Nello specifico, “l’imperativo di mantenere l’Italia al passo con l’euro, attraverso la nomina presidenziale di banchieri ed economisti a governare il Paese, non ha forse contribuito alla progressiva disgregazione dei partiti politici italiani?”, si chiede l’autore.
“Nel 2021 – conclude Foreign Policy – si è parlato molto di ‘effetto Draghi’. Il fatto che fosse così necessaria una magia personale (sic) è indicativo dell’esito incerto del progetto che Draghi e le sue coorti perseguono dagli anni Novanta. Hanno scommesso sulla modernizzazione dell’Italia imbrigliandola in Europa. L’Italia è ora effettivamente imbrigliata all’Europa, probabilmente in modo irreversibile. Ma il livello di crescita è stato disastroso: dagli anni Novanta, il progetto di ammodernamento è stato un’enorme delusione”. In altri termini, Draghi da solo non basta ad annullare i famosi problemi strutturali che affliggono l’Italia da decenni. La sua possibile salita al Quirinale, per come analizzata da Tooze, fa emergere una sorta di paradosso. In questi giorni, infatti, si sente dire spesso che “nessun partito può dire di no a Draghi”. Tuttavia, allo stesso tempo, il suo insediamento sullo scranno più alto delle istituzioni potrebbe portare a uno sfibramento delle forze politiche anche più acuto di quello già in atto da anni.