E’ da più di un secolo che nell’Occidente industriale le idee delle avanguardie rivoluzionarie finiscono per fornire paradossalmente nuove occasioni al mercato, come se fossero sempre bell’e pronte per dare corpo ai riti sacrificali del dio del profitto. Nel 2021 Mark Zuckerberg e il gruppo dirigente di Facebook hanno pescato come nuovo obiettivo per fare soldi un mondo parallelo chiamato Metaverso, dal romanzo Snow crash di Neal Stephenson, “autore di culto” – si usa dire – classificato come esponente della “narrativa cyberpunk e postcyberpunk”. Per ora assistiamo solo ai primi sviluppi di questo progetto del colossale gruppo socialmediatico (per esempio con il business dei visori di realtà virtuale e le nuove VRchat, al centro di una prima querelle con il Garante per l’informazione inglese sui rischi per i minori), e tra gli addetti ai lavori tanti concordano nell’applauso: “Questa piattaforma estremamente ambiziosa e affascinante promette di portare le dinamiche social a un livello completamente nuovo ed entusiasmante”.

Sia quel che sia, il Metaverso distopico in salsa Zuckerberg porta con sé conseguenze epocali. Ed è stato un amico albergatore d’eccellenza, Michil Costa, che rivendica con orgoglio la sua esperienza giovanile punk, a farmi notare per primo che la prospettiva sociale perseguita dall’onnipotente multinazionale americana, con il paradossale ribaltamento in business dell’originale incubo cyberpunk di Meta, suggerisce anche una radicale riscrittura di quell’aspetto fondamentale delle società umane che è l’ospitalità.

In una conviviale presentazione dell’Alta Badia invernale a Milano, ormai due mesi fa, Costa, patron della Maratona dles Dolomites e dell’hotel La Perla, ha voluto sottolineare quanto la proposta turistica di questa valle dolomitica così indirizzata proprio alla valorizzazione dell’ospitalità tradizionale acquista oggi una sorta di valore aggiunto decisamente controcorrente, in una battuta ‘anti-Meta’.

Accudire i viaggiatori di tutto il mondo rivendicando la propria identità locale – così particolare come quella ladina – persino nella lingua e nei costumi, mettendo in tavola dei piatti del territorio accurati e rivisitati, ha sì un sapore d’altri tempi, come un vinile nell’epoca Spotify, ma solo a una prima superficiale lettura. Oggi più che mai, peraltro, nell’epoca pandemica del distanziamento sociale, dei sorrisi nascosti dietro le mascherine e delle strette di mano sublimate, la possibilità di ritrovarci più spesso nel Metaverso che nella realtà fisica è tutt’altro che materia d’invenzione fantasy.

Si potrebbe obiettare che il primo esempio di trasformazione industriale e commerciale dei valori dell’ospitalità umana viene proprio dal mondo del turismo. Per non dire del ribaltamento di fondo che la storia della nostra lingua ci suggerisce di datare intorno al XIII secolo, quando la parola “oste” – francesismo che ha la stessa radice appunto di “ospite” – si estende a indicare l’esercito nemico, sino a generare una sorta di opposto, ovvero il termine “ostile”. Ma questo ci porterebbe in un attimo ad aprire la questione gigantesca dell’accoglienza in generale, di un mondo ricco dove si pretende la libertà per i turisti ma la si vieta con violenza ai migranti, altro che ospitalità post-digitale.

Tornando in tema, persino nel cuore delle montagne ladine, dove pure di pseudo-host genere AirBnb non se ne vedono ancora tanti in giro, s’era fatta avanti concretamente un’offerta turistica che potremmo definire smart, prima che la pandemia fornisse l’accelerazione con l’alibi sanitario verso un’ospitalità più digitale. In val Gardena, per esempio, già qualche anno fa è stato lanciato con successo un albergo di un certo livello pressoché completamente automatizzato, dove tutto si traduceva in codici e operazioni su terminali, e l’ospite poteva non incrociare quasi mai portieri, hostess, camerieri e umani vari.

Anche in Svizzera di esempi analoghi se ne potevano trovare addirittura in alta quota, per esempio sul Piccolo Cervino: a una certa ora, terminate le corse della funivia, il grande rifugio diventava spettrale, ma alcune camere da letto restavano disponibili (attualmente sono in ristrutturazione); previo pagamento, elettronico s’intende, l’alpinista-turista che si voleva fermare per la notte a 3800 metri, per essere già vicino la mattina dopo ad alcune facili cime del gruppo del Monte Rosa, riceveva i codici di accesso validi anche per i servizi igienici, e se poi voleva qualcosa da mangiare o da bere restavano in funzione le macchinette automatiche di ristoro.

L’automazione smart, ben prima del “distanziamento” da Covid-19, ci sta già accompagnando da uno o due decenni anche nell’ambito turistico, per esempio i cosiddetti non-luoghi di passaggio sono via via più disabitati, e tutto è affidato alle macchine senza presenza umana, come in tante stazioni dei treni. E che dire delle gelide cassettine a codice con le chiavi di casa che danno il benvenuto a milioni di turisti nelle città di mezzo mondo? Per quanto riguarda l’accoglienza a tavola, dal fast-food al Touch Easy Order attraverso il terminale del McDonalds, il passo verso la quasi automazione è stato già compiuto da anni.

Il Meta è tutt’altro, ovviamente, ma senza entrare nel merito di che cosa potrà offrire davvero questa realtà virtuale va notato quanto il mondo che fu di Facebook proponga oggi l’idea di un definitivo salto di civiltà, di un rovesciamento di direzione della parabola umana. E non è un bello sviluppo, se si perde del tutto il senso profondo dell’ospitalità, già sconvolto dall’esasperazione del business turistico prima e ora pure dalla micidiale accelerazione disumanizzante del mondo digitale post-pandemico.

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