Il piccolo imprenditore sconfessa il prof. Michael Eugene Porter, uno dei maggiori esponenti della teoria della strategia competitiva delle imprese. Perché nelle piccole imprese, di solito, l’imprenditore-manager viene sollevato dal gravoso incarico di dover pensare, intuire o immaginare una strategia competitiva, quella che mira a stabilire una posizione redditizia e sostenibile contro le forze che determinano la concorrenza nell’ambito di un business.

Il processo di formulazione della strategia di una piccola impresa è molto più semplice e lineare: la struttura del business determina la migliore strategia che, a sua volta, determina la struttura organizzativa a essa più funzionale. Tutto molto snello e soprattutto non ingabbiato in schemi rigidi. Pur rimanendo l’unico e principale responsabile della strategia, l’imprenditore-manager di una piccola realtà non la delinea nelle sue parti, si limita a sceglierla (tra le strategie generiche) sulla base dei pochi o, sebbene numerosi, scollegati dati che i collaboratori, spesso consulenti esterni, gli forniscono.

Non vi è una cieca fiducia nell’analisi dei dati come pre-condizione delle scelte strategiche e dei cambiamenti. Parole come intuito, genialità, passione, immaginazione, nei pensieri (perché spesso non c’è nulla di scritto) strategici del piccolo imprenditore compaiono spesso. Eppure non sono certamente pochi i casi di grande successo che sono lontani anni luce dai processi analitici e formali tanto cari a Porter e che probabilmente stridono in una realtà economica che è molto lontana dall’essere ordinata e sistematica.

La metodologia di Porter si fonda sullo studio delle caratteristiche dei settori di business, dai quali dipende la redditività a cui può mirare una data impresa. In qualunque area di business, sia esso nazionale o internazionale, che produca beni o servizi, le regole della concorrenza si riassumono in cinque forze competitive: l’entrata di nuovi concorrenti, la minaccia di sostituti, il potere contrattuale dei clienti, il potere contrattuale dei fornitori e la rivalità tra i concorrenti presenti. Le cinque forze determinano la redditività di un business perché influenzano prezzi, costi e investimenti che devono sostenere le imprese appartenenti al settore stesso. Il potere degli acquirenti determina, per esempio, i prezzi che l’azienda può imporre. La forza contrattuale dei fornitori determina il costo delle materie prime e di altre forniture. L’intensità della concorrenza influisce sui prezzi e sui costi in aree quali gli impianti, lo sviluppo del prodotto, la pubblicità e le forze di vendita. La minaccia di ingresso di nuovi concorrenti pone un limite ai prezzi e determina gli investimenti necessari per scoraggiare i concorrenti medesimi.

Tutto vero, sempreché si riescano però a individuare i confini dei settori di business per una piccola media impresa. Ma come si attribuisce l’appartenenza di una piccola impresa a un settore di business piuttosto che a un altro? La globalizzazione dei mercati e la complessità strategica delle aziende di piccole dimensioni rendono sempre più difficoltoso definire perimetri competitivi precisi. Spesso la risposta a queste domande, lungi dall’essere scontata o frutto di analisi razionale, dipende dalle opinioni e dal punto di vista dello stesso imprenditore-manager. È con quelle lenti che si sceglie in quale business competere e quindi con quali concorrenti gareggiare.

Una azienda che produce e vende cialde per macchine da caffè deve scontrarsi solo con chi le produce? O deve confrontarsi anche con tutti quelli che indirettamente agiscono sulla testa del consumatore finale per determinare l’acquisto (come per esempio chi ha un bar oppure produce e vende la classica moka)? Da questo punto di vista può quindi risultare azzardato basare la scelta della strategia (generica) sulla base di un settore di business che è tutt’altro che ben definito e circoscritto oggettivamente.

Non solo, ma la cultura delle piccole medie imprese contrasta la filosofia di Porter anche per quanto riguarda il concetto “dell’impresa bloccata per i tanti cantieri aperti”. Sebbene una piccola impresa possa avere una miriade di punti di forza e di debolezza al confronto con i propri concorrenti, ci sono due tipi fondamentali di vantaggio competitivo che essa può possedere: un vantaggio di costo (costi bassi) oppure di differenziazione (la capacità dell’impresa di offrire un prodotto unico, dotato di caratteristiche non percepite dal consumatore negli altri prodotti presenti sul mercato). Per Porter un’impresa che si impegni in entrambe le strategie di base non riuscirà a portarne a compimento nessuna e la conseguenza sarà una bassa redditività.

Quest’affermazione, nel mondo delle piccole imprese, appare più come considerazione teorica che pratica. Forse fino agli anni ’90 del secolo scorso quest’impostazione fortemente dualistica poteva funzionare anche per le piccole medie imprese. Oggi la situazione è molto più sfumata, si parla infatti di una logica e di un mondo “fuzzy”. La logica fuzzy mette in discussione il concetto di logica binaria. Nel mondo reale tutto è questione di misura, non esiste solo il bianco o il nero, ci sono anche le sfumature. È difficile trovare nella realtà economica di oggi imprese che perseguono realmente e con successo la logica strategica strettamente duale di Porter. Oggi tutte le aziende competono contemporaneamente sui costi e sulla differenziazione.

Quali sono le imprese di successo che puntano esclusivamente sulla leadership di costo? E quali solo sulla differenziazione? È possibile distinguerle nettamente? E, ancora, le differenze di profitto tra le aziende possono realmente essere imputate a scelte strategiche nette in favore di una o dell’altra strategia generica di Porter? Domande a cui Porter darebbe forse una risposta certa che io, come il piccolo imprenditore, non sono in grado di dare.

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