Negano spaccature, rivendicano l’unità. “Non riusciranno a dividerci, saremo compatti sul Quirinale e non solo”, c’è chi prova a sbandierare, come il deputato Maurizio Lupi, a vertice terminato. Eppure, nel giorno del ritiro di Silvio Berlusconi dalla corsa al Colle, a implodere è pure l’unità evocata tra le diverse anime e partiti del centrodestra.
Sono le 19 quando, con tre ore di ritardo, il computer del presidente di Forza Italia si collega alla riunione via Zoom convocata dagli alleati. Ma il leader azzurro non c’è, non partecipa. Decide di disertare quel vertice già saltato, poi convocato di fronte all’irritazione e alle pressioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, e ancora slittato di nuovo per ore. Al suo posto c’è la fedelissima senatrice Licia Ronzulli, con accanto – rimasto in silenzio – il coordinatore nazionale Antonio Tajani, collegati insieme dal pc dello stesso presidente di Forza Italia. Tocca alla parlamentare così l’annuncio del passo indietro: la riserva è sciolta, ma Berlusconi non si candiderà. Immediate partono le dichiarazioni di “riconoscenza”, fatte rilanciare dagli staff del leader della Lega e della presidente di Fratelli d’Italia. Ma sembra un rito quasi scontato. Perché l’unità, senza altre carte e nomi in mano, evapora non appena svanisce la copertura dell’attesa della scelta berlusconiana. Tanto da far riemergere tutte le distanze in una coalizione già divisa sul governo e non solo.
Bastano i diktat arrivati dal presidente azzurro, amareggiato per i continui distinguo e i piani ‘B’ evocati dagli alleati nei giorni dell’ “operazione scoiattolo” alla ricerca dei voti, ad aprire lo scontro. Nel nome di Mario Draghi. Perché Berlusconi è chiaro: “Il premier deve restare a Chigi”. È lo stesso messaggio che già Tajani aveva fatto recapitare nel corso della riunione precedente dello stato maggiore azzurro, con ministri e sottosegretari, poche ore prima del vertice.
Tradotto, c’è il veto azzurro nei confronti del possibile trasloco al Colle del presidente del Consiglio. Ipotesi sul quale da giorni lavora il Pd, mentre lascia a dir poco scettici Lega e M5s. Ma se Salvini nel vertice non si esprime sul futuro di Draghi, a riunione ancora in corso è invece un susseguirsi di agenzie di stampa fatte filtrare da alcuni staff della comunicazione dei partiti presenti. Da Meloni a Ignazio La Russa, quel che emerge è che ci sarebbe per FdI “contrarietà all’elezione di Draghi al Quirinale”. Una versione però smentita a vertice terminato, tra le furie della stessa Giorgia Meloni: “Abbiamo apprezzato il senso di responsabilità di Silvio Berlusconi. Assai meno le indiscrezioni uscite che non corrispondono in alcun modo alla realtà. Non sono state formulate proposte di candidatura né tantomeno sono stati posti veti”, spiega. E ancora: “La questione di Mario Draghi al Quirinale, sulla quale non abbiamo espresso alcun giudizio, non è stata posta e sarebbe semmai problema che possono avere le forze che partecipano al suo governo”, chiarisce. Ovvero, la responsabilità è scaricata nei confronti di Lega e Forza Italia, nonché sui partiti minori (da Coraggio Italia a Cambiato, passando per l’Udc) che già fanno parte della maggioranza.
Ma lo scontro non si limita al destino di Draghi, ma coinvolge anche il tema della durata dell’esecutivo. Perché, se FdI punta alle urne dopo il voto per il Colle, al contrario, nella nota letta da Forza Italia, Berlusconi spiega invece di considerare “necessario che il governo Draghi completi la sua opera fino alla fine della legislatura per dare attuazione al Pnrr”.
“È stata una giornata difficile, ma non tesa. Non credo che la coalizione sia divisa, lo dimostreremo. Abbiamo dato a Salvini come leader l’incarico di dialogare con gli altri partiti. Ma non accetteremo veti dalla sinistra”, ricostruisce Maurizio Lupi (NcI), al termine del vertice. Ma è una difesa velleitaria o quasi. Così come sembra evidente l’imbarazzo di Antonio De Poli, presidente e senatore Udc: “Veti di Forza Italia su Draghi? Non abbiamo parlato di nomi, né sono stati posti veti. Solo un’indicazione”, prova a smentire. Eppure, il comunicato forzista parla chiaro. Per Berlusconi bisogna arrivare alla scadenza naturale, una linea che fa infuriare Meloni. Tutto mentre Salvini prova a tornare nei panni del kingmaker.
Certo, l’impressione è che la partita fallita e il tempo perso sul nome di Berlusconi, al di là delle dichiarazioni di rito, abbiano già annullato quel vantaggio iniziale che il centrodestra diceva di vantare. E che ora inizi tutt’altra partita. “Il centrodestra lavora a una rosa di nomi, tutti di alto profilo. La sinistra non potrà porre veti”, fa filtrare Salvini, in attesa dell’incontro con il segretario Pd Enrico Letta. Proprio il dem era stato però chiaro, con il niet comunicato negli scorsi giorni: non saranno accettati candidati di area centrodestra, come la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e Letizia Moratti, ma solo profili super partes: “Col ritiro di Berlusconi e lo scontro deflagrato all’interno del centrodestra tutto è chiaro. Ora ci vuole accordo alto su nome condiviso e Patto di Legislatura”, twitta subito Letta dopo il vertice. Convinto che ora la prima mossa non sia più nelle mani del centrodestra.