Il 9 luglio 1878 veniva eletto presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini. Il migliore, ma per davvero, non nel senso fake contrabbandato da giornaloni e partiti allo sbando. L’elezione del presidente, partigiano e per ciò stesso patriota (non nel senso meloniano del termine, ovviamente) rappresentò un risultato storico, sia per l’ampiezza straordinariamente alta dei consensi (82,3%, percentuale mai raggiunta né prima né dopo), sia per la qualità dell’eletto. Un risultato che costituiva il prodotto dell’onda lunga della Resistenza, e, al tempo stesso, del settennio operaio e antifascista (1968-1975).
Tempi ormai lontani. In Parlamento del resto erano presenti allora dei leader veri, espressione di partiti autenticamente di massa. Oggi abbiamo invece una pletora di mestierianti sul cui stendardo è impressa esclusivamente una parola d’ordine: tiriamo a campare, sia nel senso metaforico che in quello letterale del termine.
Inutile quindi aspettarsi risultati positivi dalla votazione del nuovo presidente. Il risultato più probabile è, a questo punto, l’elezione di Mario Draghi, che passerebbe dal ruolo di primo ministro a quello di presidente. Tale circostanza, di per sé, imprimerebbe una forte torsione presidenzialistica al sistema italiano, rappresentando un ulteriore salto di qualità nella tendenza verso il verticismo istituzionale e l’esautoramento del sempre più tenue e patetico ruolo del Parlamento. L’elezione in massa dei Cinquestelle a quest’ultimo ha costituito a ben vedere il colpo di grazia. Opera loro è stata infatti la geniale auto-evirazione del Parlamento che, secondo qualche pio desiderio rimasto ovviamente irrealizzato, avrebbe dovuto accompagnarsi al rafforzamento del ruolo degli organi rappresentativi e all’adozione finalmente di un sistema elettorale proporzionale.
Oggi i deputati eletti coi Cinquestelle, dispersi in parte in varie diaspore, sembrano pronti a tutto pur di prolungare il più possibile quella che, per la maggior parte di loro, costituirà l’unica e ultima esperienza da rappresentanti del popolo. E non sono certo gli unici, dato che il taglio delle poltrone colpirà tutti i partiti, prima fra tutti la pattuglia guidata da Matteo Renzi. Del doman non v’è certezza, quindi, quasi per nessuno.
Paradossalmente, questo riflesso di autoconservazione di un mediocre ceto politico in genere abbarbicato alla poltrona, gioca contro il passaggio di Draghi dal Palazzo Chigi al Quirinale, dato che il venir meno del suo attuale ruolo di presidente del Consiglio potrebbe mettere a repentaglio la sopravvivenza del governo. Rischio per evitare il quale i partiti, primo fra tutti il Pd di Enrico Letta, pretendono che la scelta di Draghi si accompagni a un patto di legislatura che preveda garanzie e prebende per la varia e abbondante compagnia dei comprimari del presunto migliore. Vuoi vedere che ci toccherà di nuovo Matteo Salvini agli Interni, tanto per dirne una? Abbinamento questo, tra elezione del presidente e patto sul governo, che secondo Alessandro Di Battista “dà il voltastomaco”.
Certamente la confusione tra i due livelli e i due ruoli, quello presidenziale di garanzia previsto dall’art. 87 della Costituzione e quello di indirizzo politico governativo, costituisce una violazione del sistema politico configurato dalla Costituzione e in questo senso rappresenta, come accennato, un nuovo passo verso un presidenzialismo all’italiana, praticato nei fatti in attesa di qualche eventuale modifica delle norme, che tanto restano lettera morta in questo come in altri casi.
La carica della polizia che ha provocato due feriti tra gli studenti che manifestavano il loro sdegno per la morte di uno di loro, vittima di un omicidio sul lavoro mentre realizzava un’esperienza cosiddetta di studio-lavoro (altro frutto avvelenato del renzismo insieme al jobs act e altre schifezze del genere) rappresenta in questo quadro un evidente segno dei tempi. Il governo detto dei Migliori, al di là delle chiacchiere e del servile omaggio tributatogli da troppi media, si è infatti caratterizzato a mio avviso fin dal suo sorgere per un netto orientamento contro i giovani e contro la classe lavoratrice.
Basti citare i dati divulgati in questi giorni sull’incremento della quota dei lavoratori poveri, pari ormai al 25% secondo un rapporto pubblicato dal ministero del lavoro. O la mancanza di soluzioni concrete per il problema della disoccupazione giovanile, l’estensione del precariato, l’assenza di interventi sul tema del cambiamento climatico, tema per eccellenza di interesse delle giovani generazioni, che vede anzi il governo attingere ai già scarsi incentivi per le energie rinnovabili lasciando intatti quelli per le fonti fossili, che pure dovrebbero gradualmente essere messe al bando. E per finire, la ciliegina sulla torta della prossima possibile guerra contro la Russia per l’Ucraina, strombazzata dai giornaloni.
Il presidente quindi, chiunque esso sia, non solo sarà un servo della borghesia, come si diceva un tempo, ma della parte peggiore della stessa. Chiunque abbia a cuore le sorti dell’Italia deve quindi prepararsi a un periodo non breve di dura opposizione a scelte come quelle accennate.