Per settimane, anzi mesi, era sparito completamente dai radar. Disertava i talk show in tv, negava le interviste e pure le dichiarazioni alle agenzie di stampa. Le ultime risalivano addirittura ad agosto ed erano sull’Afghanistan: niente di divisivo, come sempre. Poi basta: la messa in chiesa? Meglio guardarla in tv. Il ristorante? Troppa gente, neanche a parlarne. Più si avvicinava la fine del settennato di Sergio Mattarella e più Pier Ferdinando Casini cercava di farsi dimenticare. Addirittura, raccontava il Corriere, quando qualche cronista lo chiamava per strada – “Casini, Casini!” – lui faceva finta di non sentire e tirava dritto. Quasi non fosse quello il suo nome.

Incenerito dalle sue stesse parole – Era troppa la paura di bruciarsi sulla strada del Quirinale per lui che più di una volta è finito incenerito dalle sue stesse parole. Un rapido elenco, in ordine sparso: aveva messo le “mani sul fuoco” per garantire su Totò Cuffaro e quello era stato riconosciuto colpevole di favoreggiamento alla mafia; aveva disturbato l’ufficio stampa della Camera – che presiedeva – per fare sapere di aver espresso la sua “stima” a Marcello Dell’Utri, e i giudici subito dopo lo avevano condannato per concorso esterno. E poi: aveva detto che fare una commissione parlamentare d’inchiesta sulle Banche era “demagogia e propaganda”, salvo poi accettare di presiederla. E ancora: aveva inaugurato la sua elezione a presidente di Montecitorio scagliandosi contro “il male oscuro del trasformismo“, lui che è stato con la destra e con la sinistra, alleato di Silvio Berlusconi e candidato del Partito democratico, amico di Gianfranco Fini e di Matteo Renzi, ma pure di Massimo D’Alema. Prima, seconda e terza Repubblica: passano le ere politiche e lui è sempre lì, perpetuo attore non protagonista sulla scena del Transatlantico. Perché affannarsi per rimanere a galla quando è più facile galleggiare?

Dieci legislature consecutive, tutte col sorriso – L’inconfondibile zazzera bianca, il sigaro, la sciarpa del Bologna e un sorriso che si può avere solo se hai trascorso gli ultimi quattro decenni a passeggiare per Montecitorio, Casini di anni ne ancora solo 66: sarebbe il terzo presidente più giovane dopo Francesco Cossiga e Giovanni Leone. Sembra incredibile, eppure nelle ultime ore il suo nome è tornato a far parte a pieno titolo del toto-Quirinale. A farlo, dopo mesi di silenzi e retroscena, è stato lui stesso, pubblicando sui social una foto che lo immortala da giovanissimo su un palco: “La passione politica è la mia vita“, ha scritto. I maligni hanno fatto notare che è vero: oltre alla politica non ha mai fatto altro. Nato a Bologna in un giorno di dicembre del 1955, Casini respira scudocrociato sin dalla culla. Figlio del segretario Dc della città, è un doppio enfant prodige: non solo della politica – come dice lui – ma anche dell’arte di dribblare i problemi. Racconta Pino Corrias che al liceo fu sua sorella a prendersi uno schiaffo perché distribuiva un volantino scritto da Casini: “In effetti fu colpa mia”, ammette lui ancora oggi. Laurea in giurisprudenza, entra in consiglio comunale ad appena 24 anni: è il 1980 e Bologna gli sta già stretta. Tre anni dopo ecco l’elezione alla Camera, la prima di altre sette – una da presidente – più altre due al Senato: in totale fanno dieci legislature e 39 anni trascorsi in Parlamento.

Gli anni della Balena bianca – A Roma, dopo una breve esperienza dietro a Tony Bisaglia, il capo dei dorotei, diventa il più stretto dei collaboratori di Arnaldo Forlani, che lo accoglie sotto la sua ala e ne intuisce subito le potenzialità: Potresti stare ore a parlare senza dire niente“. Casini è giovane, di bell’aspetto, di perenne buonumore: caratteristiche che negli anni ’80 sono comuni soprattutto tra i socialisti, non certo nella Dc. E infatti a piazza del Gesù lo fanno responsabile della propaganda del partito, che vuol dire cene, conoscenze, bella vita e un contorno di belle ragazze di ottima famiglia. Fin dal referendum del 1974 è contrario al divorzio, dunque, divorzia due volte: la prima dalla bellissima Roberta Lubich, la seconda dalla ricchissima Azzurra Caltagirone, miliardi in palazzi e giornali. Tutto questo, ovviamente, non influisce minimente sulla sua presenza – praticamente fissa – al Family day. “Non capisco cosa c’entrino le scelte private con la difesa che io faccio della famiglia”, si lamenta ogni volta che lo provocano sull’argomento.

Il partito in mano a Cesa – E’ uno dei rari momenti in cui sembra perdere la pazienza. Ai tempi di Tangentopoli, per dire, era tranquillissimo: mai sfiorato da nulla, si sgancia rapidamente da Forlani e si fa trovare pronto per l’arrivo di Silvio Berlusconi. All’inizio aveva un gemello: Clemente Mastella. Li chiamavano Cip e Ciop: insieme fanno il Ccd, acronimo di Centro cristiano democratico, un taxi per portare ad Arcore gli ex diccì in fuga dal centrosinistra. “Io ridevo a tre barzellette del cavaliere ogni dieci. Lui a dieci su dieci”, raccontò maligno Mastella sempre a Corrias. A colpi di barzellette, Casini si guadagna l’elezione a presidente della Camera. Esordisce col discorso contro il trasformismo, mentre alla guida del suo partito – che nel frattempo ha cambiato nome in Udc – arriva Lorenzo Cesa. E’ il 2005 e Cesa ha appena incassato il “non luogo a procedere” dal gip di Roma per una storia di tangenti cominciata dodici anni prima, nel marzo del 1993. Dopo un paio di giorni di latitanza, l’allora giovane democristiano si consegna nel carcere di Regina Coeli e dice: “Intendo svuotare il sacco”. Cesa, in pratica, spiega come venivano chieste le mazzette agli imprenditori per gli appalti dell’Anas. Per quei fatti viene condannato nel 2001 a 3 anni e 3 mesi per corruzione aggravata. Due anni dopo, però, nel 2003 la corte di Appello annulla le condanne per un cavillo procedurale: il processo deve ricominciare ma per il giudice gli atti compiuti sono ormai “inutilizzabili“. Cesa incassa il non luogo a procedere e va a dirigere l’Udc, il partito di Casini che allora è un punto fermo del centrodestra berlusconiano.

Le mani sul fuoco per Cuffaro – Quelli sono gli anni in cui l’attuale candidato al Colle, da presidente della Camera, fa sapere di avere telefonato a Dell’Utri per esprimergli “stima e amicizia” – come da comunicato di Montecitorio – mentre i giudici erano chiusi in camera di consiglio. La terza carica dello Stato, dunque, ci teneva a fare sapere di aver solidarizzato con un imputato che da lì a poco sarebbe stato condannato per un reato grave come il concorso esterno: un fatto senza precedenti rimasto, per fortuna, tale. Questa storia della mafia, d’altra parte, ha rischiato più volte di togliere il sorriso dalle labbra di Casini. Mai coinvolto personalmente da alcuna inchiesta o sospetto, l’aspirante presidente della Repubblica si è trovato suo malgrado a guidare un partito che per anni ha accumulato candidati impresentabili, soprattutto al Sud, soprattutto in Sicilia. A cominciare, appunto, da Cuffaro, il vero azionista di maggioranza – a livello elettorale – dell’Udc. Quando la magistratura lo mette sotto inchiesta per favoreggiamento a Cosa nostra, Casini arriva a mettere le mani sul fuoco per garantire sull’allora potentissimo governatore della Sicilia. “Cuffaro – assicurò – è una persona perbene, quando sarà assolto da tutte le accuse, tanti sciacalli di queste ore saranno in prima fila a chiedergli scusa”. Il seguito è fatto noto: nel 2008 Cuffaro venne condannato a cinque anni per favoreggiamento semplice, festeggiò come si trattasse di un’assoluzione e Casini lo candidò al Senato. “Mi assumo la resposabilità politica della sua messa in lista”, disse lui ad Annozero. Michele Santoro gli chiede: “In caso di un’eventuale condanna di Cuffaro anche lei ne trarrebbe le conseguenze?”. Risposta: “Sarei in condizione di chiedere scusa, poi dopo deciderò al momento giusto”. Per la fredda cronaca, il momento giusto per Casini non è mai arrivato: neanche dopo la sentenza di Appello che ha condannato Cuffaro per favoreggiamento alla mafia, neanche quando l’ex governatore è finito in galera dopo la Cassazione. Nel 2008, in ogni caso, sarà soltanto grazie ai voti di Totò Vasa Vasa” se l’Udc riuscì poi a entrare a Palazzo Madama. Ma Cuffaro è solo il nome più noto di quella stagione dell’Udc. In quel partito, infatti, c’era anche gente come Giuseppe Drago, pure lui ex presidente della Sicilia, condannato per peculato per essersi appropriato dei fondi riservati alla presidenza. O come Vincenzo Lo Giudice, detto “Mangialasagna“, assessore regionale che in campagna elettorale usava la colonna sonora del Padrino e uno slogan non troppo originale: “Vi faccio un’ offerta che non potete rifiutare”. E’ quasi superfluo aggiungere che Mangialasagna fu poi condannato a dieci anni per mafia.

L’approdo a sinistra – Il legame con l’anima siciliana del partito si rompe nel 2010, quando Casini fiuta l’aria da fine impero e rifiuta di entrare nel governo Berlusconi. Cuffaro e Saverio Romano, invece, tornano all’ovile di Arcore e fondano il Pid, Popolari d’Italia domani. “Se ne vanno? Mi libero di un peso“, si sfogava lui, pronto a cominciare un nuovo percorso: quello di avvicinamento al centrosinistra e – chissà – al sogno Quirinale. In tandem con Fini trova riparo dietro Mario Monti, poi segue Matteo Renzi, che gli dà un seggio al Senato e gli chiede di guidare la commissione d’inchiesta sulle banche. E’ un flop annunciato, visto che la commissione non riesce a far approvare una relazione unitaria: troppo diverse le posizioni dei gruppi parlamentari per mettersi d’accordo sui tanti buchi nella vigilanza di Bankitalia. Secondo Leu nella relazione del presidente c’erano “alcune reticenze gravi rispetto al lavoro che abbiamo fatto e che doveva essere reso pubblico“. Casini alza le spalle e si scopre un sostenitore della magistratura: “Spetta alle indagini dimostrare che ci sono dei ladri, dei truffatori che hanno cercato delle scorciatoie nell’illegalità per tenere in piedi i loro istituti”. Una mossa da Ponzio Pilato: dell’operato della sua commissione il suo presidente se ne lava le mani. La notizia è che le aveva ancora.

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