Sapete tutti chi sono Munzir e Mustafa. Sono sulla bocca di tutti. I loro volti li avete visti nei post acchiappa click di qualche politico o influencer social che non sanno nulla del perché un padre sia mutilato e il figlio sia malforme. La verità è che ci siamo ridotti a questo: usare la sofferenza per aumentare il numero di mi piace delle nostre pagine. Lo vediamo con i post strappalacrime di una qualche celebrità da 100 mila like che ha fatto della condivisione delle foto, accompagnate con frasi da effetto, il proprio lavoro. Chiamati perfino a scrivere libri da grandi case editrici che valutano il numero di seguaci e non la qualità dello scritto.

E’ chiaro quindi che Munzir e suo figlio Mustafa, diventati celebri grazie a uno scatto – se non ci fosse stato sarebbero vissuti nell’anonimato e nella miseria –, non sarebbero mai arrivati in Italia. Questa è l’ennesima storia, almeno per loro finita bene, di una solidarietà a rate per la Siria.

Ma ve lo ricordate Hamza al Khatib? Poco più di dieci anni, partecipa insieme ai genitori a una delle migliaia di manifestazioni pacifiche che avvengono in Siria. E’ il 2011, il popolo chiede aperture democratiche e la fine di una dittatura cinquantennale passata di padre in figlio. I soldati sparano, decine di persone rimangono a terra. Viene arrestato e portato via, Hamza è un bambino. Torturato – evirato, gli spengono i mozziconi di sigarette addosso – viene riconsegnato cadavere ai genitori. Indignazione mondiale. Hilary Clinton dice che è la fine del regime. Dura una settimana questa indignazione.

Poi c’è il massacro di Houla, 2012. Decine di persone vengono ammazzate brutalmente dai miliziani di Assad. Fra loro bambini. L’unico sopravvissuto, un bambino di sei anni, ha il volto in prima pagina sul Times. Che fine ha fatto oggi quel bambino? Tutto lo stupore per quello che era successo non è stato capace di trovare una casa, accoglierlo o rendergli giustizia. Poi c’è Houda, bambina che nel campo profughi alza le mani davanti a un fotografo che gli punta la macchina fotografica. Pensa che sia una arma. Il volto di questa bambina, la sua espressione, è sui Tg, nei post strappa like di Facebook. E ora?

Ma questa è la storia della Siria, di un conflitto di cui non vogliamo sapere nulla. Ci accontentiamo di indignarci online ma non siamo capaci di organizzare una manifestazione o di usare le nostre forze intellettuali per creare una solidarietà comune. Lo abbiamo scritto moltissime volte, nell’arco di questi dieci anni, dalle pagine di questo blog su Il Fatto Quotidiano. Il destino ha voluto che chi scrive abbia la sfortuna di essere anche siriano e debba difendere questa causa persa. Ma forse ha ragione Roberto Saviano che posta il video di una bambina che trema infreddolita, circondata dal fango in un campo profughi vicino Idlib, città sperduta nel nord della Siria: “La peggiore razza comparsa su questo solitario e piccolo pianeta è quella dell’homo sapiens a cui purtroppo e senza averlo voluto sono sommato”.

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