Il film diretto dall’ungherese Kornél Mundruczo, nelle sale italiane dal 27 gennaio è un trittico anagrafico e geografico, sospeso e vibrato nel virtuosismo dei piani sequenza che offre una variante sul tema “giornata della memoria”
Essere o non essere, sentirsi o non sentirsi, di origine ebraica. C’è un periglioso e fascinoso vulnus storico antropologico nelle profondità etiche di Evolution – Quel giorno tu sarai, il film diretto dall’ungherese Kornél Mundruczo, nelle sale italiane dal 27 gennaio. Trittico anagrafico e geografico, sospeso e vibrato nel virtuosismo dei piani sequenza (il secondo episodio è di 36 minuti senza uno stacco di montaggio), Evolution offre una variante sul tema “giornata della memoria” e affini con ispiratissima scelta formale e leggiadra soluzione narrativa.
I venti minuti di Eva, il primo tassello di Evolution, iniziano nel silenzio di tre tizi addetti alla pulizia di una camera a gas nazista. Scopettoni, brusche e disinfettanti (era un vero compito della croce rossa polacca ndr) fino a quando i tre scoprono residui di capelli umani incrostati nei muri e incastrati in pertugi. Capelli che diventano freudiane matasse, fino a quando la pulizia non è rotta da un pianto di un bebè. Nel tombino accucciato è sopravvissuto un bambino che viene quindi portato alla luce in superficie, in mezzo alle baracche, nel brulichio di soldati sovietici liberatori.
Terzo episodio, Jonas. Stavolta a Berlino è il turno ipercontemporaneo del nipotino appena adolescente di Eva, Jonas (altro fenomeno, Goya Rego). La fuga da scuola per un incendio (potrebbe essere un episodio antisemita, ma chissà) di Jonas e dalla compagna turca Yasmin finisce con passaggio del ragazzino a casa (è cultore di mostri, zombie ed effetti speciali sanguinolenti sul proprio viso e corpo) e di nuovo a un corteo scolastico da cui sfuggire per finire romanticamente in camporella fluviale berlinese. Seguendo le orme di Pieces of a woman, Mondruczo ripropone la naturalezza del suo stare in scena con una macchina da presa vorticosa, inesausta, che mai vuole andarsene con lo sguardo dall’evoluzione del racconto, offrendo la perfezione e l’ipnosi estetica della ripresa senza stacchi di montaggio. E allo stesso tempo è come se per tutto il film quella macchina da presa cercasse, schivasse, evidenziasse, un’identità ebraica smarrita, sfuggente, laica, antica e moderna, memoria tradizionale in via, appunto, di trasformazione senza però perdere il senno di quel che fu.
Coraggioso, sconvolgente, romantico, Evolution è un film in cui si bilancia il messaggio senza mai renderlo retorico, trascinando lo spettatore nella fenditura di un tempo unico divenuto tale grazie ai più classici artifici del cinema. Scritto e ispirato alle vicende familiari della co-autrice Kata Weber. Con Martin Scorsese estasiato alla produzione esecutiva e un direttore della fotografia come Yorick Le Saux che di nuovo si supera. Andate a cercare il brano Don’t di Daniel Freitag: c’è qualcosa di così intimo in questi versi e accordi da far venire i brividi.