Musica

Luigi Tenco, altro che elitarismo: lui voleva arrivare a quante più persone possibili

Oggi è il 27 gennaio e ricorrono i 55 anni dalla morte di Luigi Tenco: con pochi altri come con Tenco, però, è necessario parlare della vita, non della morte. La sua figura è avvolta da un’aura di elitarismo e raffinatezza, forse anche a causa del Club Tenco, che da cinquant’anni esatti porta il suo nome (nacque infatti nel 1972) e del conseguente Premio Tenco, che è il principale riconoscimento europeo per la canzone d’autore.

Ma Tenco era tutt’altro che elitario, anzi. Nelle interviste dell’epoca dimostrava la chiara voglia di arrivare a più persone possibili. Il suo linguaggio musical-letterario puntava alla scarnificazione della scrittura, alla comprensione immediata della canzone, con armonia ragionata, significativa ma mai dalla fruizione complessa. E i testi? Tenco è stato il cantautore che più di altri in Italia ha contribuito all’abbassamento al colloquiale della canzone, rendendola così un oggetto artistico moderno, atto comunicativo diretto e autentico.

La poesia italiana c’era arrivata da oltre cinquant’anni, quando per esempio Guido Gozzano nel 1911 pubblicava la raccolta I colloqui, dal titolo programmatico e inequivocabile per versi destinati al sempre più nutrito numero di persone che affollavano le città. Si realizzavano, allora, le conseguenze portate dall’Unità d’Italia, quando, come fa notare Tullio De Mauro, “gli effetti economici e sociali dell’evento politico cominciano a farsi sentire anche negli usi linguistici delle grandi città”. E ancora: “Gozzano vive il momento e lo testimonia. Il suo largo ricorso alla colloquialità si accompagna in lui alla coscienza dell’ormai avvenuto invecchiamento dell’armamentario linguistico tradizionale della versificazione nazionale”. Gozzano adegua il linguaggio. Perché? Perché chi comunica con le parole vuol farsi capire.

In canzone tutto questo avviene con cinquant’anni di ritardo e, per buona parte, avviene grazie a Tenco. Basta prendere due canzoni della sua discografia: Mi sono innamorato di te (1962) e Vedrai vedrai (1965). “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare”, così comincia la prima. È singolare constatare tanto realismo sbattuto in faccia alle persone in un periodo in cui l’unica canzone mediaticamente possibile in Italia era quella di Sanremo: passionalmente sempre oltre il melodrammatico, enfatica, irreale. Riascoltate il brano di Tenco invece: asciutto e diretto, autentico, schietto. Tre anni dopo, con Vedrai vedrai, il percorso sarà completo: si eliminano anche le rime, si dà massima attenzione al messaggio e allo straniamento armonico che dà significato al contenuto e ai versi che impastano la musica. Le canzoni diventano materiche, pastose, vive.

E, paradossalmente, a Tenco questo riusciva meglio nelle canzoni d’amore, perché in quelle di protesta (pur bellissime e dirette, colloquiali anch’esse) l’abbassamento te lo aspetti. Insomma, se devo denunciare uno stato di cose, non parlo in modo complicato: “Cara maestra, un giorno m’insegnavi che a questo mondo noi siamo tutti uguali. Ma quando entrava in classe il direttore tu ci facevi alzare tutti in piedi e quando entrava in classe il bidello ci permettevi di restar seduti”. L’invettiva, il giambo, l’incedere ascendente, vuole di per sé la schiettezza. Ma le canzoni d’amore erano invece roba pomposa: è lì che Tenco compie la sua grande rivoluzione.

A risentirli oggi, quei brani non sono per niente invecchiati. E non è questione di arrangiamenti, di timbri e generi musicali geniali e senza tempo. Niente di tutto questo. Le canzoni di Tenco hanno una struttura moderna perché moderna è l’attitudine al racconto, urgente è la voglia di arrivare, di farsi capire – come lo era la scelta del volgare per la Commedia di Dante –, diretto e comunicativo è il risultato.

Sarebbe ora che l’Italia accademica e universitaria cominciasse ad accorgersene; bisognerebbe iniziare a parlare di Tenco attraverso la sua opera, e non tramite i cliché pruriginosi della sua morte a Sanremo. Tenco non era un poeta e non era un musicista. Era un cantautore, si esprimeva con quel linguaggio e ci ha lasciato una manciata di canzoni che sono lì, oggi parlano per lui, parlano di noi e in Italia hanno fatto scuola, più di quanto si possa pensare.