Nelle prossime 24 ore ricorderò due amici, due dei più cari. Andrea è morto il 29 gennaio di un anno fa, aveva 45 anni. Asier il 30 gennaio del 2015, ne aveva 38. Sono morti entrambi di cancro. Scoprirete il motivo per cui affido pagine private a un pubblico, piccolo o vasto che sia, di lettori.
Asier Basterretxea era basco, di Bilbao. Ci eravamo conosciuti in Erasmus, a Uppsala, Svezia. Era il 1996. Lo vedevo a lezione e in biblioteca, mi insegnò a usare la posta elettronica e anche un po’ di basco: di quella lingua gutturale ricordo solo la parola “Asier”, significa “principio”. Ricordo anche che odiava gli addii: in una stagione destinata a terminare, come l’Erasmus, era scontato prima o poi salutare definitivamente i volti che ti avevano accompagnato per mesi. Allora le lettere ancora si affrancavano, i voli low cost dovevano ancora fare il loro ingresso nei cieli, per scrivere e spedire una e-mail servivano tre quarti d’ora. Asier odiava gli addii e piangeva a ogni partenza, io lo prendevo in giro. Prendevo in giro anche Andrea, per il suo vocione stentoreo e i suoi modi a volte impacciati. Andrea Marchi lo conoscevo dal tempo del liceo: era nato a Ostellato, in provincia di Ferrara, lì si era laureato e aveva trovato lavoro. A Ostellato è diventato sindaco, lo votò l’88% della sua gente. Raccontare la loro vita sarebbe impresa ardua, posso solo dire che non hanno vissuto invano. Voglio raccontare invece come se ne sono andati.
Ho percorso 3500 chilometri per arrivare in tempo alla Iglesia del Colegio de Jesuítas de Indautxu a Bilbao. Per la chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Ostellato, dove si sono celebrati il battesimo, la comunione, la cresima, il matrimonio e il funerale di Andrea, è bastata mezz’ora. Asier non conosceva il prete che avrebbe celebrato la funzione, prima in lingua basca e poi in spagnolo, andò a trovarlo: “se devi parlare di me da morto, forse è meglio che mi conosci da vivo”. Andrea il suo lo conosceva benissimo: si scrivevano spesso, interrogandosi a vicenda sui dubbi della fede.
Asier non credeva, ma mi ha lasciato un rosario. Doveva anche venire in Italia per incontrarmi. Il medico che gli diagnosticò il tumore al polmone gli diede 15 mesi di vita. Lui lo abbracciò. Approfittò di quella concessione temporale per viaggiare con sua moglie ogni fine settimana nei luoghi della Spagna che ancora non conosceva: il martedì faceva la seduta di chemioterapia, il venerdì partivano. Quei mesi avrebbero dovuto essere sufficienti anche per informare di persona i suoi amici che quella sarebbe stata l’ultima volta che si vedevano. Il mio turno era previsto per febbraio ma la prognosi iniziale era stata troppo ottimista.
Andrea lottava da cinque anni contro il suo tumore. In alcuni momenti sembrava guarito, poi i controlli lo facevano ripiombare in un’altra realtà. Per un certo periodo mi ha tenuto nascosti gli esiti, per non farmi preoccupare. Gli ultimi mesi era ormai consumato, usciva ogni tanto con me per bere una birra. Non voleva parlare di quello che lo attendeva, preferiva gli aneddoti di una vita. Entrambi non avevano figli ma entrambi hanno un erede: prima di andarsene Asier ha conosciuto suo nipote, la sorella gli ha dato il suo nome; Andrea ha un nipote, Pietro, è lui che ha parlato al suo funerale. Studia giurisprudenza come lo zio e parla, come lo zio, mischiando sapientemente dialetto e latino. A entrambi piacevano la precisione e l’organizzazione, quasi maniacale in Asier.
Alla moglie aveva lasciato un libretto di istruzioni, c’erano i nomi da contattare dopo la sua morte. Il mio era tra quelli, sapeva che quel giorno sarei stato tra le panche della Iglesia del Colegio de Jesuítas de Indautxu. Il prete accennò alla presenza di un amico della Svezia: aveva organizzato anche il suo funerale, decise la musica e anche i passaggi della Bibbia da leggere, scelse versetti dell’Ecclesiastico da dedicare ai presenti; aveva affittato un locale per la fine della messa, aveva già pagato cibi e vivande, per mangiare e bere alla sua salute.
Andrea aveva sei preti a celebrare la sua funzione. Sperava a dire il vero anche in un cardinale, ma osava troppo. Parlando di lui, don Luciano Domeneghetti disse che “Andrea è stato un dono. Un dono per la sua famiglia e per questa comunità. Un dono e una guida anche per i governanti. L’esempio di rettitudine, onestà, capacità e competenza di Marchi sia da guida alle autorità nel loro operare per i territori e le materie che competono loro”.
Entrambi ora sono nel vento. Le ceneri di Asier sono state sparse per metà sul Monte Bianco, una montagna che avrebbe voluto scalare: aveva affidato il compito al fratello e a un amico, “per poterla alla fine conquistare”, l’altra metà è stata sparsa attorno a una quercia, nel giardino della casa del Verano della sua famiglia, a Murgia, nella periferia di Bilbao. Le ceneri di Andrea riposano nel cimitero di Ostellato, dietro una lapide. Su quel marmo ha voluto far incidere le parole di Sant’Agostino “beata solitudo, sola beatitudo”. Credo fosse uno scherzo, una celia come diceva lui.
Andrea e Asier non sono mai stati soli. Hanno saputo essere persone rette, oneste, colte, preparate nel loro lavoro. Ed entrambi avevano una dote non comune. Non hanno mai chiesto niente a nessuno. Dagli studi fino alla carriera brillante hanno ottenuto per merito quello per cui hanno lottato, hanno vissuto e sono morti contornati dall’amore dei familiari e dall’affetto degli amici. Ai loro funerali ho vissuto la prova di queste doti non comuni. Ai loro funerali c’erano centinaia di persone: perché morire con dignità forse è ancora più difficile che vivere con dignità e i loro esempi sono preziosi.