Nell’aprile del 2013, la crisi della Seconda Repubblica divenne agonia irreversibile con i partiti in ginocchio da Giorgio Napolitano per chiedergli un secondo mandato al Quirinale. Eletto dal centrosinistra nel 2006 (come poi Mattarella nel 2015), Re Giorgio prese 738 voti alla sesta votazione su 997 votanti. La Lega scrisse il suo nome sulle schede, mentre il M5S continuò a votare Stefano Rodotà. La fine del ventennio breve fu quella, arrivata dopo l’epilogo del berlusconismo di governo, la nascita del governo di Mario Monti, la non vittoria del Pd di Bersani (e le candidature bruciate nell’urna di Marini e Prodi) e il primo boom pentastellato.

Due anni dopo, con l’elezione di Sergio Mattarella al Colle furono quattro le forze che non si allinearono a quella scelta: Lega, FdI, Cinque Stelle e Forza Italia (in parte). Fin qui la storia recente.

Oggi a distanza di sette anni da quel 2015 e di quattro dalle elezioni politiche a tramontare è la stagione dei due populismi premiati nel 2018: il M5S prima di Di Maio e poi di Conte (ma anche di Di Maio ancora) e la Lega di Matteo Salvini. La rielezione di Sergio Mattarella è infatti il mantenimento dello status quo drammatico dopo la fine del Conte II e anche la vittoria autoconservativa di un Parlamento che se n’è infischiato delle indicazioni dei leader. Insomma, due dei partiti che non votarono Mattarella sette anni fa adesso lo faranno. L’estremo sigillo alla loro catastrofe consumatasi in questa settimana.

Il peggiore ovviamente è stato Matteo Salvini, capo che serve a riempire le piazze ma che non ha il minimo senso tattico e strategico. Non a caso il flop della Casellati è stato indicato come il suo Papeete bis. Salvini, ritrovatosi a suo tempo leader quasi per caso del Carroccio (Maroni lo designò in un divide et impera con i veneti Zaia e Tosi), ha manifestato una totale incapacità a fare le trattative, specializzato perlopiù in annunci disattesi e in continue perdite di tempo (basta ricordare l’estenuante trattativa di mesi per il governo gialloverde). Alla fine, insieme con Conte (e Meloni), ha tentato invano di trascinare gli altri leader su Elisabetta Belloni, una candidatura oggettivamente debole se non altro perché nessuno ne conosce il suo profilo politico.

Poi Giuseppe Conte, appunto. A differenza di Salvini, ha avuto una minore agibilità politica. Per due fattori: il primo è stato il potere di interdizione di Di Maio che, benché vanti due fallimenti (la mancata nomina a premier nel 2018 con il doppio dei voti della Lega e le dimissioni da capo politico) ha creato una sua corrente pseudo-andreottiana nel M5S dedita alla gestione del potere e alla realpolitik. Il secondo è stato il peso di una pattuglia autonoma di parlamentari che sin dalla prima votazione ha iniziato a votare Mattarella sperando nel bis. E così il dilettantismo di Salvini unito alla leadership dimezzata di Conte hanno provocato la fine della breve Terza Repubblica.

Le elezioni del cambiamento del 2018 culminano con la rielezione di Mattarella e la conferma di Draghi a Palazzo Chigi. M5S e Lega sono anche i partiti che escono più spappolati. Enrico Letta vince parzialmente con la sua inerzia e senza mai muoversi e a destra prenderà forma un centro formato da azzurri, totiani, casiniani, Calenda e Renzi.

Volendo applicare il concetto vichiano dei corsi e ricorsi storici, adesso alle prossime elezioni politiche del 2023 dovrebbe essere Giorgia Meloni a fare il pieno, così come la doppietta Napolitano bis-Mattarella portò al boom gialloverde. Vedremo. E’ probabile invece che aumenti le astensionismo. In ogni caso da domani comincia una lunga campagna elettorale. E nulla sarà come prima.

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