Rose di nomi mai sfogliate, cariche istituzionali gettate nella brace, la presidente del Senato carbonizzata per “misurare le forze” di una coalizione e per un cocciuto autodafè della stessa interessata. E poi incontri inconcludenti, veti incrociati, nomi buoni per un pezzo e per un pezzo no, triturando la seconda carica dello Stato, il presidente del Consiglio di Stato, la ministra della Giustizia, la capa del dipartimento che guida i servizi segreti. Quella delle 36 ore che hanno precipitato il Parlamento verso la rielezione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella è la storia di una disfatta, dell’incapacità di trovare un’intesa per garantire la Costituzione e la volontà del presidente uscente, è lo slow motion di un avvitamento progressivo, coordinato e sincronizzato di tutti i leader inabili a trovare – come avevano promesso, a mille microfoni – un “profilo alto” anzi no altissimo, irresistibile, a cui non si poteva dire di no. Una vicenda che si è replicata in carta carbone in qualcosa a metà tra i Dieci piccoli indiani, con le teste che cadono una ad una, e l’Assassinio dell’Orient Express, sul quale come noto il delitto è compiuto da più di una mano. Questa che segue è, in sintesi, la ricostruzione del nuovo fallimento dei dirigenti politici di tutte le forze politiche dopo quella del 2013, quando si rifugiarono nella rielezione dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano. Doveva essere un’eccezione ed è già regola, nonostante le convinzioni di Mattarella, perfino.

27 gennaio, 23.24
Il centrodestra ha presentato una rosa di nomi ma solo per posa: Letizia Moratti, Marcello Pera, Carlo Nordio non sono mai stati messi alla prova del voto dei grandi elettori. Nella giornata di giovedì, giorno della quarta votazione (l’ennesima andata a vuoto con la valanga di schede bianche) risale il nome di Pierferdinando Casini. Ma Matteo Salvini non se la sente, sente già in lontananza i commenti dal pratone di Pontida e poi c’è da dare ancora la priorità alla coalizione. Giorgia Meloni lo obbliga a portare al voto almeno uno dei nomi che hanno messo insieme nei primi giorni. I vari partiti della coalizione (i tre più grandi più i centristi, minuscoli nel Paese ma significativi nelle Aule parlamentari) gli lasciano ancora la fascia da capitano: sarà lui a dover decidere.

28 gennaio, 8.56
“Non escludo l’ipotesi che possa esservi anche un Mattarella bis”, è un’ipotesi “in campo con tutta la sua forza” dice Matteo Renzi: sembra aver già capito tutto e quando si tratta dell’ex premier non si sa mai se parla perché sa o più semplicemente se parla perché sa cosa farà.

28 gennaio, 9,46
Salvini decide il nome più autorevole, per il ruolo più che per la biografia, quello della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Secondo varie ricostruzioni è stata lei stessa – per motivi che sfuggono – a chiedere ai dirigenti di partito, di centrodestra e non, di votarla, nonostante tutti i cronisti che seguono il centrodestra sappiano e abbiano anche messo per iscritto che potrebbero mancare parecchie decine di voti, a partire da una parte di Forza Italia.

28 gennaio, 12,35
Prima ancora che finiscano le operazioni di voto, con Casellati che soffrigge sul fuoco, Salvini convoca una conferenza stampa in cui annuncia che proporrà un incontro con gli altri leader di maggioranza perché lo spoglio è di là dal cominciare ma il capitano immagina già l’esito.

28 gennaio, 15,06
Forse non immagina l’entità del naufragio, però: la presidente del Senato raccoglie 382 voti e si calcola che i franchi tiratori siano stati almeno 71. Luigi Brugnaro non perde tempo: non resta che Draghi, dice. Meloni dà fuoco alle polveri per un rogo che divamperà solo molto più tardi: Fratelli d’Italia e Lega sono stati leali, gli altri no. “Gli altri” sono Forza Italia e i partiti centristi. Mattarella intanto prende 46 voti senza che nessun partito abbia dato una sola indicazione. Il giorno prima ne aveva presi più del triplo, 166. Sono parlamentari del M5s, dell’oceanico gruppo misto, gli iscritti ai mini-partiti che il giorno delle elezioni vanno sotto la casella chiamata “Altri”. Il vitalizio deve maturare, le indennità dal 2023 faranno sentire la loro mancanza.

28 gennaio, 17,46
Tutti si aspettano che con il centrodestra esanime, il centrosinistra con l’apparente rientro di Renzi (che si è unito a Letta per dire no all’ipotesi di Franco Frattini) possa dare la zampata, fare il salto, andare oltre, il “profilo alto”. E invece riecco Casini. Tradotto dalla capogruppo di Forza Italia Annamaria Bernini, raggiante: si è aperta una trattativa col centrosinistra. Traduzione di secondo livello a beneficio degli alleati sovranisti: missione compiuta.

28 gennaio, 18,16
Salvini sembra accelerare. Sente Letta, poi incontra Draghi: sembra arrivato il momento dell’elevazione del capo del governo a capo di Stato, ma è solo un’illusione ottica. Ignazio La Russa annusa l’aria e prova a risintonizzare le frequenze: a Fratelli d’Italia, dice, Elisabetta Belloni potrebbe andare.

28 gennaio, 19,30
Fine dell’incontro Conte-Salvini-Letta. Esce il segretario del Pd e c’è chi nota che ripete un paio di volte “la presidente o il presidente della Repubblica”, mettendo per primo il femminile. I lavori sembrano in corso, la gestazione difficile e lenta, pare coprire delle carte messe in gioco. Ma dopo poco Salvini vuole prendere la fascia di mister Quirinale, non si tiene. Esce per strada, gigioneggia con qualche battuta rivolta ai giornalisti, un po’ per trasmettere la serenità che secondo tutti non ha e un po’ per creare l’attesa di chi deve rivelare la soluzione al problema, come un finale della Signora in giallo. “Non fatevi male” sorride con i cronisti più volte. Poi annuncia, orgoglioso: “Sto lavorando per una presidente donna“.

28 gennaio, 20,10
Passano 17 minuti e al messaggio si accoda Giuseppe Conte che almeno si copre un po’ le spalle dicendo che ci sono più profili sul tavolo. Il pensiero di tutti, però, è ormai su Elisabetta Belloni, direttrice del Dis, il Dipartimento che sovrintende i servizi segreti. Ma nella rosa ci sono anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia, come noto non proprio la beniamina dei 5 Stelle, e la sua ex predecessora, l’avvocata Paola Severino, che per Forza Italia ha il peccato originale immondabile di aver dato il nome alla legge che prevede che se un parlamentare è condannato in via definitiva per reati e pene gravi deve decadere. In Aula, per non saper né leggere né scrivere, durante le votazioni, Casini passeggia qua e là, scherza con i leghisti Candiani e Centinaio, accanto ha Verducci che è del Pd sotto forma di giovane turco (nel senso della corrente del partito) e dall’altra parte sembra di riconoscere Dario Stefàno, che in passato è stato anche nella Margherita, ma anche vicino all’Udc, poi passò a Sel con Nichi Vendola, ora è nel Pd, e domani chissà, la legislatura è l’ultima a morire.

28 gennaio, 20,46
Tutti i media additano Belloni: quale momento migliore per Renzi? “Il capo dei Servizi non può diventare presidente della Repubblica”. Un minuto dopo – 20,47 – parla Forza Italia: “Perplessità su due tecnici a Palazzo Chigi e al Quirinale”. E Renzi, cinque minuti dopo, rilancia: “Se Belloni viene alla Camera non la incontro”. Se non si fosse capito – 21,03 – “non la voteremo”. Già che c’è Forza Italia dice no anche a Paola Severino. Tempo un quarto d’ora e al trenino si aggiunge l’ultimo vagone: Coraggio Italia (Toti-Brugnaro) esprime “perplessità” su Belloni. Il colpo finale, forse inaspettato, arriva da Liberi e Uguali che si trova – semel in anno – nella posizione inedita e forse imbarazzata di essere d’accordo con Renzi. Quando poco prima delle dieci di sera twitta Beppe Grillo – Belloni for president – sembra già troppo tardi. Ironia della sorte: Carlo Calenda aveva già espresso il via libera a Belloni – perché competente, dice – ma in dote porta pochi grandi elettori. Lo sconquassamento degli schieramenti è trasversale: centrosinistra, centrodestra, polo liberal-centrista.

28 gennaio, 21,09
I grandi elettori sono stufi dei loro leader e cominciano a temere che possano fare ancora più casino di così, che pare a tutti già sufficiente. E allora mandano un bigliettino di avvertimento. Anzi, ne mandano 336: su ciascuno c’è scritto Mattarella.

28 gennaio, 22,04
E’ come la tettonica a zolle ma la velocità raddoppia ora dopo ora: gli stessi movimenti che sembravano aver portato a una “presidente donna”, ora allontanano Belloni, Cartabia e Severino dal Quirinale spingendole là in mezzo al mar. Poco dopo le 10 di sera il Pd precisa che lavorerà per una maggioranza unita. E quindi Belloni – a cui mancherebbero parecchi pezzi – è già scomparsa per metà dietro l’orizzonte. Salvini insiste, posta una foto sui social: bevo un caffè e mi metto al lavoro per la prima presidente, sarà una straordinaria innovazione. Mentre beve il caffè, a chiarirgli le idee, cioè che la frittata sembrava fatta, bella tonda, sopraggiunge anche Di Maio che apre il fuoco con una mitraglietta contro nuora perché suocera – a capo del suo movimento – intenda: “E’ indecoroso bruciare così Belloni”. Il Pd maramaldeggia: annunciazione annunciazione, tra i candidati non ci sono solo donne. Cioè ci sono ancora, per certi versi incredibilmente in un Parlamento che nelle premesse era fatto di anti-sistema, svecchiatori, innovatori e rottamatori, Giuliano Amato e Pierferdinando Casini.

29 gennaio, 2,01
Forza Italia, Udc, Noi con l’Italia, Coraggio Italia fanno le ore piccole per dirlo: uniti su Casini. Poco prima Letta aveva detto che sarebbe stato “fondamentale” l’incontro di tutte le forze della maggioranza. Risponde presente solo Tajani.

29 gennaio, 9,05
Viene annunciato un vertice di tutti i leader dei partiti che sostengono Draghi, ma viene rinviato. Casini continua i suoi giri nell’emiciclo di Montecitorio. Poco prima aveva detto: il mio nome c’è solo se unisce. E non è questo il caso. Letta integra il ragionamento: serve un’intesa tra tutti oppure bisogna ascoltare la saggezza del Parlamento. Che intanto sta riempiendo di nuovo le urne coi loro bigliettini: “Mattarella”, scrivono, senza indicazione di voto, anzi con l’indicazione della scheda bianca. Ma il gruppone M5s ormai si muove da solo e quasi come un sol’uomo e dei vertici e dei controvertici sembra fregarsene. Dentro Forza Italia litigano sulla scheda bianca: fateci votare Mattarella, grida qualcuno.

29 gennaio, 11,32
Anche Draghi scrive il suo bigliettino ideale. Incontra il presidente Mattarella al giuramento da giudice della Consulta di Filippo Patroni Griffi. Si parlano mezz’ora. Il premier poco dopo dirà che è “opportuno” che il capo dello Stato resti al Quirinale “per il bene e la stabilità del Paese”.

29 gennaio, 12,07
Salvini doveva essere il kingmaker e forse gli sembra esserlo fino in fondo. Alla fine tocca a lui certificare il fallimento di una trattativa durata a giorni e per nulla: Salvini propone di riconfermare Mattarella e Draghi. E’ chiaro che qui la parola “proporre” è un eufemismo: non ha scampo. Meloni non crede ai suoi occhi, e lo scrive.

29 gennaio, 12.13
All’ultimo miglio, si racconta, sul tavolo del vertice finale, a metà mattinata, erano rimasti i nomi di Cartabia e Casini. Ma se Cartabia non sarebbe stata votata dal M5s, su Casini è stato opposto il rifiuto della Lega. D’altra parte per quattro giorni il centrodestra era andato a dire a tutte le televisioni che Casini non è un esponente del centrodestra. Dire di sì a un eletto del centrosinistra avrebbe trasformato una sconfitta in una waterloo. Dall’altra parte Conte avrebbe tentato di rimettere in corsa Belloni o Severino. Il tempo, però, era ormai scaduto.

29 gennaio, 12,38
I partiti di maggioranza raggiungono l’intesa. Hanno trovato un’ideona: per tenere in piedi il governo e la legislatura e soprattutto per non vedere i propri gruppi parlamentari finire alla julienne. Anche perché nel frattempo i voti per Mattarella sono diventati 387. Per questo l’assemblea dei grandi elettori Pd si è aperta con un lungo applauso dedicato al presidente: gli sguardi in cagnesco sono stati sostituiti dagli applausi di sollievo. E’ durante questo voto che si vedono parlare il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, capo di Base riformista (la corrente degli ex renziani del Pd), e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, capo di una corrente senza nome nel M5s. Non discorrono della crisi in Ucraina, molto probabilmente, ma di un’altra guerra, appena vinta.

29 gennaio, 12,45
Chissà se qualcuno ha ascoltato l’ex presidente del Senato Piero Grasso: “Insieme alla richiesta di restare per un altro settennato, auspico che il Parlamento faccia giungere al presidente Mattarella anche le scuse per lo spettacolo di questi giorni”. A giudicare dalle parole della senatrice berlusconiana Bernini c’è da giurare di no: “La convergenza sul nome del presidente Mattarella non è la sconfitta, ma il riscatto della politica“.

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