Dal 1861, dopo aver sostenuto come patriote l’unificazione nazionale, le donne cominciano a reclamare i propri diritti in quanto cittadine. Tra le richieste emerge quella di includere nella nuova legislazione i diritti che alcuni stati preunitari avevano già concesso, come il diritto di voto amministrativo per alcune categorie di donne nel Lombardo-Veneto e in Toscana. La proposta non viene accolta e, anzi, le donne non solo non ottengono alcuna concessione di voto, ma continuano a restare sottoposte all’autorità maritale, come formalizzato nel Codice civile, non potendo avere neanche la libera gestione dei propri patrimoni.
Negli anni seguenti, prima con la riforma elettorale del 1882 e poi con quella del 1895, vengono erosi parte dei criteri censuari e si estende di riflesso il diritto di voto a una parte consistente del movimento operaio. Restano però escluse le donne, che proseguono lungo la via giudiziaria, presentando petizioni su petizioni che continuano a essere bocciate – la prima era stata scritta dalla femminista socialista Anna Maria Mozzoni nel 1877. Nel 1903 diverse associazioni femminili costituitesi intrecciano i loro percorsi politici a livello internazionale, formando l’International Council of Women.
Nel 1908 si tiene a Roma il primo Congresso nazionale delle donne italiane. Vengono discussi diversi temi, tra cui chiaramente la questione del suffragio, ma anche divorzio, diritto di famiglia, diritto all’istruzione e pure nodi ancora cruciali come l’educazione sessuale e il problema della violenza e dell’assenza di strumenti giuridici efficaci per arginarla e condannarla.
Nel 1912 viene introdotto il suffragio universale maschile e per la prima volta viene applicato nelle elezioni politiche del 1913. Per le donne ancora niente ma, con la prima guerra mondiale e grazie a decenni di lotte precedenti, inizia a mutare qualcosa a livello europeo e oltreoceano. La Grande Guerra contribuisce a rompere alcune barriere solcate dalla linea del genere – immobilizzando per quattro anni la manodopera maschile e consentendo un grande afflusso femminile nel mercato del lavoro, con effetti positivi in termini di pressione sociale e mobilitazione politica, tradottasi in risultati di riconoscimento normativo, anche se successivamente accompagnati da pesanti espulsioni dal mondo del lavoro. Molti Paesi iniziano a estendere il suffragio alle donne: in Austria e Gran Bretagna (1918), nei Paesi Bassi, in Lussemburgo e in Germania (1919), in Canada e negli Usa (1920), in Svezia (1921).
In Italia però arriva il fascismo, che delinea un altro tipo di situazione. Lo evidenzia Vinzia Fiorino, docente di Storia contemporanea e Studi intersezionali di genere all’Università di Pisa e autrice de “Il genere della cittadinanza. Diritti civili e politici delle donne in Francia”: “Il nuovo regime fascista presenta una certa abilità nel creare una commistione tra esclusione e rappresentazione dell’inclusione. Infatti, per quanto de facto le forme di femminismo coeve vengano gradualmente emarginate, il fascismo riesce anche a presentare alle donne italiane un nuovo modello femminile, già presente ma silente e a proporre forme parziali di inclusione. Si pensi che nel 1924, durante un Convegno femminista internazionale tenutosi a Roma, Mussolini arriva a promettere e successivamente a far passare una legge sull’estensione del voto amministrativo alle donne: tuttavia, si trattava di una ‘legge beffa’, poiché anzitutto è una legge che riconosce soltanto un diritto amministrativo e, nondimeno, viene formulata limitando fortemente la partecipazione solo per alcune categorie di donne. Va aggiunto anche che il seguente passaggio al sistema podestarile e la totale esclusione maschile e femminile dai diritti politici arrivano ad arrestare definitivamente un percorso riapertosi solo nel secondo dopoguerra”.
30 gennaio 1945: l’Italia è ancora impegnata nella seconda guerra mondiale e al Nord i nazisti occupano il Paese. Durante una riunione del Consiglio dei ministri, il comunista Palmiro Togliatti e il democristiano Alcide De Gasperi discutono la questione del suffragio femminile, portando una proposta che non vede tutti d’accordo. Ciononostante la norma viene approvata e il primo febbraio seguente viene emanato un decreto legislativo che conferisce il diritto di voto alle italiane con più di 21 anni (tranne a coloro che esercitano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”). La prima occasione di voto si ha nel 1946, per le elezioni amministrative, qualche mese prima del referendum del 2 giugno 1946 per scegliere tra monarchia e repubblica. L’affluenza è alta: l’89% delle donne va alle urne. Non solo, vengono elette circa 2mila candidate nei consigli comunali. Saranno poi 21 (su 226 candidate) le donne elette all’Assemblea Costituente e, tra queste, 5 deputate entrano nella Commissione dei 75, per redigere il testo costituzionale.
Il contesto bellico non aveva favorito l’elaborazione di un ampio dibattito pubblico ed era passata l’idea che un simile raggiungimento fosse ovvia conseguenza della nuova democrazia. Tuttavia, come rimarca Fiorino, non era affatto così: “Dopo il secondo conflitto mondiale l’estensione del voto alle donne non rappresenta un passaggio scontato, tanto da portare l’Udi, l’Unione donne italiane, ricostituitasi nel 1944, a fissarlo come punto non negoziabile per il futuro assetto politico. E in effetti, ad esempio, nonostante il grande attivismo femminile durante la Resistenza e a prescindere dalla sua apparente legittimazione politica, le donne vengono – di nuovo – escluse dalla grande marcia della Liberazione, che preludeva il passaggio all’ordinamento repubblicano. Tra i partiti di massa poi non è assolutamente riscontrabile un consenso unanime sulla questione. In particolare, il Partito d’azione continuava a sostenere la prospettiva individuale del diritto soggettivo, affermando che le donne non erano ancora pronte alla sottoscrizione di un contratto sociale. Inoltre, e qua sta un nodo più complesso, il riconoscimento della piena cittadinanza delle donne significava mettere in discussione anche tanti altri capi saldi della storia politica del Paese: dal lavoro femminile, all’aborto, al divorzio e alla discussione di un nuovo Codice civile – riformato soltanto nel 1975”.
Uno snodo fondamentale che avvicina le donne al riconoscimento dei propri diritti politici e alla conquista del diritto di voto è, dunque, quello della Resistenza. “Il ruolo femminile durante la Resistenza è stato cruciale- sottolinea Fiorino – tanto che anche nel dibattito storiografico si sta cercando di decostruire la narrazione della partecipazione femminile alla Resistenza come ‘contributo’, rimarcando l’azione poliedrica, trasversale e cruciale delle donne che hanno avuto una funzione fondamentale nel delineare forme di Resistenza civile, ricoprendo un ruolo nient’affatto addizionale, di ‘contributo’. Spesso hanno anche preso le armi, rompendo un enorme tabù”. Anche questo passaggio ha contributo a erodere una delle tante esclusioni che avevano caratterizzato la lunga costruzione della cittadinanza. Infatti “basti pensare alla retorica della difesa della Patria come una delle condizioni della cittadinanza e al fatto che in tutte le leggi elettorali troviamo un rimando ai servizi militari. Nel corso dell’Ottocento, ad esempio, l’aver prestato servizio militare bypassava qualsiasi criterio censitario nell’immissione alla cittadinanza”.
Benché sia importante rilevare che dal secondo Dopoguerra, nelle società occidentali, si è riscontrato un crescente riconoscimento formale dei diritti alle donne, ciò non ha portato al configurarsi di un percorso parallelo e più profondo riguardo alla considerazione sociale e politica delle donne. Tra i tanti altri aspetti, i dati allarmanti su abusi e femminicidi rendono drammaticamente immediata l’evidenza della strutturale violenza patriarcale. Non di meno, si vedono oggi a rischio conquiste che si pensavano come date, come l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza. Inoltre, se si riflette intorno alla crescente partecipazione femminile alla dimensione istituzionale, più in generale, extradomestica, si possono osservare ancora non poche ambiguità che oscillano tra la persistenza problematica del doppio carico di lavoro (dentro e fuori di casa) e la penetrazione delle logiche di mercato nello spazio domestico. Il formarsi di “catene globali della cura” ha comportato una “razzializzazione” del lavoro di cura, che coinvolge donne povere e migranti, sottopagate, che si inseriscono in un processo di esternalizzazione del welfare.
Le lavoratrici domestiche salariate, precarie, straniere, spesso non possono accedere alla cittadinanza come molte e molti altri stranieri nel nostro Paese. Nel giorno del passaggio in Consiglio dei ministri della proposta sull’estensione del suffragio femminile, il 30 gennaio 1945, appare centrale riflettere sulle attuali forme di discriminazione sociale che coinvolgono appartenenza di genere ma anche di “razza” e di classe e che hanno un peso politico anche all’interno di percorsi di costruzione di cittadinanza che coinvolgano tutte e tutti, senza implicare conquiste di diritti a spese di altre situazioni marginali.
Le donne possono, oggi, riconoscere questo problema e agire in prima persona? Restano domande aperte che anche la docente Fiorino sottolinea, riflettendo sul “rapporto di opacità tra donne e politica”: “Anche assumendo una prospettiva più strettamente politico-istituzionale, non si è raggiunta in alcun modo una democrazia paritaria. Non basta, per quanto auspicabile, la maggior presenza femminile negli organismi rappresentativi. È anche utile chiedersi se le donne, partecipando nei luoghi istituzionali, possano effettivamente riuscire, allo stato attuale, a trasformare questioni che si pongono come generali e che confliggono con modelli di autorità e autorevolezza ancora persistentemente legati a corpo e identità maschili”.