Sono passati dieci anni dalla sentenza di condanna contro Annamaria Franzoni. È stata una delle vicende più discusse e controverse della storia della Repubblica: ha rappresentato il vero trionfo della trasformazione della giustizia mediatica in pop justice, cioè del “crime show” come spettacolo a sé stante, disancorato dal bisogno che la mediatizzazione del delitto fosse finalizzata al risultato investigativo e processuale (come è accaduto, ad esempio, per la stagione di Mani Pulite).
Di questi aspetti della giurisdizione è stato accennato in svariati interventi. Non è questo il tema di attualità. Piuttosto, è possibile svolgere alcune considerazioni di carattere “scientifico” della decisione di primo grado. Anche queste non certamente per scalfire quella decisione oppure quelle successive. L’imputato Annamaria Franzoni è stata condannata dopo tre gradi di giudizio e oggi ha risolto i propri guai con la giustizia. Dunque, “nulla quaestio” sul merito delle sentenze.
La rivalutazione di questa, come di qualsiasi decisione, è, come accennato, esclusivamente di ordine scientifico. Il tema d’interesse è scottante e di piena attualità: scoprire se un’intelligenza artificiale, gestita da un algoritmo, potrebbe risolvere il dilemma sulla correttezza delle sentenze, in specie sui percorsi motivazionali che portano al verdetto di innocenza o colpevolezza. Nel caso della sentenza contro Annamaria Franzoni, il percorso motivazionale è stato netto: se il pigiama trovato ai piedi del letto con vistose macchie di sangue della vittima risulta indossato dall’assassino al momento dell’aggressione, l’autore del delitto sarebbe certamente identificabile nella madre del piccolo. Infatti nessuno al di fuori di Annamaria sarebbe potuto entrare furtivamente nella villa di Cogne, avendo solamente pochi minuti a disposizione per aggredire e uccidere la giovanissima vittima, contemporaneamente vestendosi e svestendosi col pigiama della signora Franzoni.
Il ragionamento “a contrario” è logico e ineccepibile (almeno da un punto di vista di probabilità razionale). Il punto dolente riguarda la modalità con la quale il giudicante ha inteso asserire che il pigiama era “indossato al 100%” dall’aggressore al momento del fatto (e dunque Annamaria Franzoni è, altrettanto certamente, l’autore del delitto del figlio Samuele). La tecnica della “bloodstain pattern analysis” permette di ricostruire la scena del crimine in virtù della morfologia delle macchie di sangue: una macchia allungata proviene da un corpo (nel caso di specie la testa del bambino colpito) che forma un angolo acuto rispetto alla superficie d’impatto del sangue (nel caso di specie le gambe dell’assassino che si trovava accucciato sul letto dove la vittima era sdraiata). Qualora invece l’angolo d’impatto tra sangue e superficie d’impatto sia perpendicolare, la macchia deve risultare tonda. Nel caso di specie, il giudicante ha dovuto risolvere un dilemma all’apparenza incongruo: le macchie repertate sul pigiama sono manifestamente tonde e l’angolo formato dalle gambe dell’aggressore e la vittima è certamente acuto (assai probabilmente inferiore di 20°, il che comporta una macchia particolarmente allungata, addirittura a “punto esclamativo”).
La motivazione ha dato per certo un elemento probatorio non oggetto di perizia dibattimentale e cioè la morfologia del pigiama. Questo “a livello microscopico” presenterebbe delle “micro collinette” che, nella parte rivolta agli schizzi di sangue, sarebbero capaci di deviarne il flusso in modo tale da modificarne anche la morfologia (da allungata a punto esclamativo a tonda). Un ragionamento indubbiamente assai raffinato. La questione è quanto il ragionamento giudiziario possa accettare ricostruzioni non rigorose e ciò nel senso di non radicalmente ancorate a fatti oggettivi. La logica abduttiva ammette scommesse; quella induttiva esige che non vi siano elementi dissonanti e vuole che la scommessa sia trasformata in una ricostruzione oggettiva, non ipotetica e priva di alternative concrete. Questo è il significato profondo del concetto di valutazione della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio.
Il tema della contemporaneità è se le forme di “cogito” artificiale siano in grado di supportare il cervello umano e dell’operatore giudiziario in particolare. Tutto questo per evitare che il togato sia investito da trappole mentali capaci di ingenerare ragionamenti apodittici e indimostrati sul fronte giuridico. La soluzione può essere a portata di mano: costruire un algoritmo in grado di fare il “detective” delle asserzioni giudiziarie sottoponendo a test le asserzioni di fatto su cui basare le decisioni. Detti test devono investire ogni singola porzione dell’assunto analizzato in base alle regole di logica classica e falsificazionista (ad esempio il principio d’identità, del terzo escluso, di non contraddizione di falsificabilità). Qualora l’assunto argomentativo superi le “prove di verità” è utilizzabile per le argomentazioni giuridiche; in caso contrario non è “tout court” affidabile.
Cosa ne sarebbe stato del processo ad Annamaria Franzoni qualora le argomentazioni a sostegno dell’accusa fossero state analizzate con un algoritmo logico di verità?