Su Elisabetta Belloni c’era un accordo già chiuso? Il segretario della Lega Matteo Salvini, quando è piombato davanti alle tv per annunciare che si stava lavorando a un’intesa su una presidente della Repubblica, aveva già davvero mezzo accordo in tasca? A sentire lui, sì. A sentire il Partito democratico, però, no, e a dimostrarlo ci sarebbero le parole molto più vaghe usate dal segretario Enrico Letta all’uscita dallo stesso incontro (a cui aveva partecipato anche Giuseppe Conte), venerdì sera. Anche il terzo partecipante, cioè il leader del M5s, oggi ribadisce – parlando con alcuni sostenitori per strada, vicino casa – che “eravamo ad un passo, avevamo chiuso l’accordo”. Su chi era chiuso l’accordo non lo dice, ma il nome sembra sempre lo stesso: la direttrice del Dipartimento che sovrintende i servizi segreti.

Ma ora che quella candidatura è sfumata e archiviata e la rielezione del presidente Mattarella ha trovato (quasi) tutti d’accordo, si capisce che gli stessi problemi che altri nomi – Marta Cartabia e Pierferdinando Casini, per esempio – sarebbero nati dentro al Pd con Belloni. E oggi questa situazione esce allo scoperto. Il segretario Letta, infatti, a Mezz’ora in più, su Rai3, dice per due volte che lui non aveva “obiezione che il capo dei servizi divenga presidente della Repubblica, nessuna norma lo impedisce” e “Belloni era formalmente compatibile“. Ma dall’altra parte “avevamo appena cominciato a discuterne” e “la discussione non era arrivata a quel punto”. “Sul tavolo – aggiunge il leader democratico – ci sono stati i nomi di Amato, Casini, Cartabia, Severino, Belloni per capire se ci fosse l’intesa. Poi quello che è accaduto, con cortocircuiti mediatici, con Salvini che è uscito, tutto s’è bloccato e si è arrivati a Mattarella“. Letta sembra sgombrare anche il campo dai sospetti di “tradimento” di Conte – cioè dall’ipotesi che Salvini e Conte siano usciti a breve distanza di tempo ad annunciare “la presidente” in accordo fra loro: “Tutto è trasparente. Io considero che non ci sia stato un accordo preventivo tra Lega e M5s sulla operazione di cui dopo per via del corto circuito mediatico si parla ora. Un’operazione nata e morta in dieci minuti perché bruciata subito. E’ stato un corto circuito mediatico“.

E poi però poco prima di Letta a parlare, all’AdnKronos, è stato Enrico Borghi, uno dei tattici parlamentari del partito, del quale è anche responsabile sicurezza e quindi componente della segreteria di Enrico Letta. Ma soprattutto è uno degli esponenti di Base riformista, la corrente che per comodità viene sintetizzata come degli “ex renziani”, guidata da Lorenzo Guerini, indicato come colui che – in asse con Luigi Di Maio dentro al M5s – ha stoppato la corsa di Belloni. “Non c’è mai stata la chiusura di una intesa con il Pd su quella candidatura” dice Borghi. Il Pd, aggiunge, da giorni stava avvertendo i 5 Stelle della inopportunità “politica e istituzionale” di quella soluzione con un passaggio mai avvenuto nella storia del Paese dai vertici dei servizi alla presidenza della Repubblica. E, proprio per quanto accaduto, il Pd si farà promotore di “una iniziativa legislativa che verrà sottoposta a tutte le forze politiche” per affrontare il tema delle “incompatibilità e ineleggibilità” che regolino il passaggio dai vertici dei Servizi a una carica istituzionale.

Borghi conferma che “quando nel vertice a tre il nome di Belloni è stato proposto da Conte – che pure era già a conoscenza di tutte le nostre avvertenze sul rischio per il sistema derivante dalla esposizione della direttrice del Dis – e caldeggiato anche da Salvini, Letta ha spiegato che ne avrebbe parlato con i ministri, i dirigenti e i grandi elettori. Non c’è mai stato un via libera a chiudere su quella candidatura”. Per altri versiperò Borghi precisa che l’ambasciatrice Elisabetta Belloni è “una figura di altissimo profilo dell’alta amministrazione dello Stato” e “per questo non doveva essere messa in mezzo al tritacarne e chi lo ha fatto si assume responsabilità politiche e istituzionali di una attività maldestra che non si sarebbe dovuta esercitare in questi modi e forme perché una Repubblica seria tutela i propri servitori e chi ha avuto altissime responsabilità istituzionali deve avvertire il dovere di atteggiarsi in tal modo”.

Viceversa, sottolinea Borghi allontanandosi dalle posizioni del segretario, “la vicenda insegna innanzitutto che c’è un problema di cultura istituzionale in alcuni partiti” (parole che ricordano da vicino quelle sullo stesso tema pronunciate da Matteo Renzi) perché “l’Italia non è l’Egitto, con tutto il rispetto per l’Egitto, dove il capo dei servizi è diventato presidente”. Da qui secondo Borghi “si pone il tema di un intervento legislativo, anche a tutela degli apparati di sicurezza affinché non siano mai più strumentalizzati”. L’esponente di Base riformista precisa che quella del Pd non sarà un’iniziativa unilaterale ma più nel merito sottolinea che “per le note vicende storiche la legislazione sui servizi è stata costruita con la paura che fosse la politica ad usare i servizi e pertanto nessun politico, neanche un consigliere comunale può essere utilizzato come fonte, confidente, consulente dei servizi segreti, tantomeno può esserne un dipendente. Ma non c’è il contrario. Non c’è una norma che impedisce al capo dei servizi di essere eletto. Perché? Perché non si è mai posta la questione nella storia della Repubblica, rientra in una logica di naturale separazione dei poteri in un regime liberale e il legislatore non si è mai sentito in dovere di introdurre in via specifica un divieto”. L’orientamento quindi è “di normare legislativamente sia il regime delle incompatibilità e ineleggibilità sia per chi è in corso d’opera, sia il regime di chi è stato ai vertici di ieri e di chi lo sarà domani”.

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