Se ci fosse un momento giusto per pronunciare il più che mai fastidioso “noi ve lo avevamo detto“, forse per i parlamentari sarebbe questo. Con la rielezione di Sergio Mattarella per quasi acclamazione, il Parlamento spodesta leader politici in stato confusionale e, praticamente per sfinimento, costringe i partiti alla conservazione dello status quo. Una mossa fatta per preservare l’ordine esistente che fa comodo a praticamente tutta la classe politica e che al tempo stesso punisce chi non ha saputo muoversi in tempo e, soprattutto, chi ha giocato per distruggere. Gli avvertimenti c’erano stati ed erano stati tanti: per prevedere il futuro sarebbe bastato conoscere le proprie truppe, ascoltare i capannelli e capire che il mix micidiale tra paura di finire prima la legislatura, perdere lo stipendio e finire massacrati in regolamenti interni che assomigliano a congressi di partito, non avrebbe lasciato scampo. Insomma gliel’avevano detto, ma non hanno ascoltato e oggi i leader si sono trovati a inseguire un Parlamento che, all’epoca di governi che lavorano a colpi di decreto, dimostra di essere vivo e vegeto. E anzi impone la sua soluzione nel caos generale. A onor del vero, a rendere quasi una scelta obbligata il ritorno in ginocchio da Mattarella, è stato per primo quello che più di tutti scalpitava per salire al Quirinale: Mario Draghi. Il premier che si è autodefinito “nonno al servizio delle istituzioni” infatti, non si è solo messo a disposizione, ma ha anche fatto capire in tutti i modi che la condizione perché tutto restasse immutato (comprese le poltrone) era che il perimetro della maggioranza fosse lo stesso. Che tradotto dal politichese significa: se trovate altre geometrie di alleanze per eleggere il presidente, salta tutto. Eccolo l’inghippo che ha reso impossibile accontentare ogni forza politica. Insomma la coperta è sempre stata corta e quelli che i giornalisti chiamavano con sufficienza “peones” non solo lo sapevano, ma non lo hanno mai nascosto.
Tra i parlamentari infatti, si parla dell’ipotesi rielezione da (almeno) inizio gennaio. Sarebbe bastato ascoltare quella che ora, con un bell’effetto di straniamento, si fa chiamare “base” per rendersi conto che le trattative per il nuovo capo dello Stato sarebbero state molto più in salita del previsto. I primi a scalpitare sono stati un gruppo di senatori 5 stelle. Le cronache parlamentari non mentono: è il 3 gennaio e quelli che vengono liquidati come dissidenti M5s intervengono in un’assemblea del gruppo a Palazzo Madama. Chiedono che il Movimento di Giuseppe Conte si intesti per primo l’iniziativa: “Mattarella ci ha chiesto responsabilità un anno fa per il governo di unità nazionale, ma l’emergenza non è finita”, è il ragionamento. Nessuno li ascolta: è troppo presto e di certo non si possono iniziare le trattative portando avanti l’ipotesi che Sergio Mattarella ha cercato di scongiurare da mesi. Ma anche questo non basta per bloccare le manovra. I senatori sono una decina (Primo Di Nicola innanzitutto, ma anche Toninelli, Audino, Presutto, Campagna, Nocerino) e prendono la parola a ogni assemblea, sempre rimbrottati come i ribelli che vogliono rompere l’unità o quelli un po’ originali che proprio di seguire il leader non vogliono farsene una ragione. Ma intanto, nel disinteresse generale, tessono legami e assi in Parlamento perché sono convinti che i leader non riusciranno a portarli da nessuna altra parte. Chi li segue da subito è una parte, seppur minoritaria, del Partito democratico: Matteo Orfini e Francesco Verducci intanto, ma anche Stefano Ceccanti. Ci si mette pure l’ex M5s Giorgio Trizzino a spedire comunicati: “Mattarella non potrà non accettare”, dice. “Siamo sulla strada giusta”. E se lo dice un parlamentare noto per essere stato amico di famiglia dei Mattarella, la sua parola avrebbe dovuto essere presa almeno un po’ più sul serio.
Insomma è inizio gennaio e più passa il tempo e più si consolida una consapevolezza: il nome di Sergio Mattarella è l’unico capace di mettere d’accordo forze politiche spaccate su mille fronti. Già perché mentre inizia a circolare insistentemente l’idea che sarà proprio Draghi il candidato naturale dei partiti, il primo veto gigante arriva “dal basso”: sono i peones a far sapere che loro anche questa non l’avrebbero digerita e nel buio del catafalco si sarebbero messi di traverso. Della serie: per voi è la strada più semplice, per noi il modo migliore per perdere definitivamente la faccia e trasformarci in veri e propri “passacarte”. Ecco perché insistono nell’offrire la soluzione Mattarella bis. Ma nessun leader vuole partire così: vorrebbe dire che non è in grado di trovare una figura migliore o che, se ce l’ha, non ha la forza di costruirci un’intesa intorno con le altre forze. E’ un problema: sarebbe ammettere di essere deboli ancora prima di partire e quale segretario potrebbe mai fare una mossa del genere. Dopo ci sarebbero solo le dimissioni. È come la tanto raccontata storia di Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore”: il Re girava nudo per il Transatlantico, ma nessuno ha avuto il coraggio di dirglielo. E chi ci ha provato è stato messo a tacere nelle retrovie. Con questo spirito il 24 gennaio è iniziata la settimana di trattative: prima ci si è dovuti liberare dell’impresentabile candidatura di Silvio Berlusconi e poi sono iniziate le indicazioni di “lasciare la scheda bianca”. La strategia era chiara: non possiamo bruciare nessuno, ci presenteremo al tavolo per un conclave e poi arriveremo a un punto di incontro. Che detto da forze politiche già richiamate decine di volte da Mattarella per l’incapacità di trovare accordi in tempi decenti (vedi le innumerevoli crisi politiche, una pure nel mezzo della pandemia giusto un anno fa), sembrava una vera chimera. E così è stato.
Il colpo di mano si è realizzato la sera del 28 gennaio. Dopo una giornata di caos, provocato in particolare da Matteo Salvini, e dopo il flop della candidatura di Elisabetta Casellati, i leader si vedono per il fantomatico tavolo mai convocato fino a quel momento e iniziano le trattative. Ma è tardi: proprio come richiesto (poco lucidamente) dai partiti, per la prima volta si svolgono due votazioni nella stessa giornata e succede che, mentre i leader hanno sul tavolo una nuova rosa di nomi, il Parlamento sta già votando in massa Sergio Mattarella che prende 336 voti. Così quando Matteo Salvini va in diretta tv a bruciare “la candidatura di una donna in gamba” e Giuseppe Conte lo segue a ruota, in Aula sta già andando in onda un’altra partita. Il resto si gioca tutto in pochissime ore: Matteo Renzi abbatte la candidatura di Elisabetta Belloni con un’intervista su La7, il Partito democratico fa una nota per chiedere di “tenere conto dei segnali del Parlamento sul rinnovo di Sergio Mattarella”. E’ il segnale che sta crollando ogni possibile trattativa e non basterà la notte per recuperare: i leader con le spalle al muro accettano la resa e perfino Salvini fa l’ennesima giravolta e usa parole di entusiasmo per l’ipotesi del bis cercando, inutilmente, di intestarsi la partita. Mario Draghi suggella la resa in un colloquio con il capo dello Stato. E anche lui, probabilmente, avrà pronunciato un “ve l’avevo detto”, che alla luce dei fatti suona piuttosto come un ricatto sottinteso “o me o la conservazione”. Ormai è fatta e il resto è tutto in discesa. Nel primo pomeriggio di sabato arriva l’immagine più forte di tutte: i partiti decidono di mandare al Colle per chiedere il rinnovo del presidente della Repubblica i capigruppo di maggioranza di Camera e Senato. Nel 2013, per intenderci, salirono Pierluigi Bersani, poi Mario Monti, Silvio Berlusconi e Roberto Maroni. Fu una sfilata di leader sconfitti. Oggi sono stati i parlamentari, quelli costretti a fare da soli, che si sono arrampicati sul Colle più alto e hanno consegnato a Mattarella la loro via d’uscita dal caos. Probabilmente l’unica capace di convincere il capo dello Stato a cambiare idea.